Chi bestemmia pubblicamente su Twitter o su Facebook rischia di dover pagare una sanzione fino a 309 euro!
Scrivere una “bestemmia su Facebook o su qualunque altro social network è un illecito punito dalla legge con la multa da 51 a 309 euro.
Il divieto deriva da una vecchia norma del codice penale (art. 724 cod. pen.) che puniva quale reato la bestemmia in pubblico. Dal 1999 la norma è stata “depenalizzata”. Per cui, oggi, bestemmiare in pubblico non è reato ma semplice”illecito amministrativo”, sanzionato con una multa, al pari di un eccesso di velocità.
Il divieto ha origini datate. La norma era ormai in disuso quando, negli ultimi anni, ha ripreso ad essere attuale. Infatti, alcuni siti internet di ispirazione cattolica hanno denunciato la comparsa di gruppi su Facebook che incitano alla bestemmia e riuniscono chiunque voglia “liberamente” offendere il sentimento religioso altrui.
La legge punisce la bestemmia pronunciata in pubblico; quindi vi rientrano certamente le espressioni blasfeme postate in gruppi e pagine pubbliche dei social network.Inoltre, la norma, per ragioni storiche, fa riferimento soltanto alla religione cattolica. Quindi è punita soltanto la bestemmia contro questa religione, nonostante la Corte costituzionale abbia indicato l’opportunità di estendere la tutela a tutte le religioni (Corte cost. sent. 28 luglio 1988 n. 925). Per esempio, un’imprecazione contro Confucio non implica una sanzione!
Il fatto che la bestemmia sia vietata dalla legge comporta, infine, che chiunque “inciti” pubblicamente alla bestemmia – ad esempio aprendo o gestendo pagine o gruppi pubblici con questa finalità – può essere accusato del reato di “istigazione a disobbedire alle leggi” (art. 415 cod. Pen), punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni.
In sintesi, “bestemmiare” sui social network contro la religione cattolica è punito con una sanzione amministrativa da 51 a 309 euro. Aprire o gestire una pagina o un gruppo che inciti alla bestemmia può invece costare una condanna da sei mesi a cinque anni di reclusione!
Foggia, 13 novembre 2013 Avv. Eugenio Gargiulo
Non commette il reato di diffamazione chi “invia” un’offesa ad una casella email!
Inviare ad un solo destinatario un’email che offende un terzo non è diffamazione, anche se questa viene conosciuta dalla persona offesa.
Pertanto, non è reato inviare ad una casella email un messaggio con contenuti offensivi nei confronti di un terzo, anche se successivamente l’offeso viene a conoscenza del messaggio.
Lo ha affermato la Corte di Cassazione in una recente sentenza ( così Cass. sent. n. 8011/2013). La vicenda vede interessata una persona che aveva ricevuto, sulla propria email, un messaggio con contenuti offensivi e denigratori nei confronti di un personaggio politico locale; ne aveva quindi informare l’interessato il quale, a sua volta, aveva sporto querela per diffamazione nei confronti del mittente dell’email.
La Corte ha concluso per l’assoluzione del mittente poiché si commette il reato di diffamazione (art. 595 cod. pen.) solo qualora le offese vengano comunicate a più persone e tra queste non va considerata anche la persona cui si riferiscono i contenuti offensivi.
Nel caso in esame il messaggio offensivo era stato inviato ad una sola casella email, utilizzata quindi da una singola persona (a prescindere dal fatto che poi, quest’ultima, lo aveva comunicato all’interessato). L’offesa è quindi giunta a conoscenza di una sola persona e pertanto non costituisce diffamazione.
Inviare un’email con contenuti offensivi nei confronti di un terzo non è reato se il destinatario è uno soltanto. Se invece il messaggio è rivolto a più di un destinatario esso costituirebbe reato di diffamazione.
Nel caso in cui le offese vengano inviate direttamente alla persona che ne è oggetto, il mittente dovrebbe invece rispondere del reato, meno grave, di ingiuria ( art. 594 cod. pen)..
In sintesi, parlare male di una persona con un’altra persona soltanto (a quattr’occhi o con un’email) non costituisce reato di diffamazione. Al contrario se il messaggio è inviato a più persone (per esempio, su una bacheca di Facebook o su un newsgroup) il reato sussiste.
Se invece è presente la persona offesa viene commesso il reato di ingiuria.
Foggia, 4 novembre 2013 Avv. Eugenio Gargiulo
Il titolare del “portale web” è responsabile per eventuali commenti diffamatori pubblicati tramite Internet!
La Corte dei diritti dell’uomo ha deciso che i siti internet sono condannabili per i post anonimi e offensivi a causa del mancato esercizio dei poteri di controllo.
Se avete commentato una notizia su un blog, un giornale online o su un altro sito internet, ma le vostre parole non appaiono sulla pagina, probabilmente ciò che vi è capitato sarà invece lo scenario globale di Internet 3.0, per via di una preoccupante sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’uomo appena pubblicata ieri .
Una sentenza che mira a ridurre enormemente il potere di interazione del lettore sui contenuti pubblicati sul web. Sostiene, infatti, la Corte: per i post anonimi diffamatori è sempre responsabile il proprietario del sito ove tali commenti vengono pubblicati, a condizione, però, che le dimensioni dello stesso sito consentano l’esercizio del controllo preventivo da parte del titolare.
La Corte di Strasburgo ritiene che sia giusto addossare sul titolare del portale d’informazione la responsabilità (e quindi una sanzione amministrativa) per non essere intervenuto a prevenire, moderare o cancellare i commenti anonimi offensivi, diffamatori o minacciosi che vi appaiono.
Il caso: un portale di informazione aveva pubblicato un articolo sulle scelte controverse operate da una compagnia di navigazione. I lettori reagirono postando commenti estremamente offensivi, diffamatori e minacciosi nei confronti della compagnia di navigazione e del suo proprietario. Quest’ultimo fece causa al portale che fu condannato a pagare 320 euro per danni morali.
La Corte dei diritti dell’Uomo sembra consapevole che imporre una responsabilità sui commenti diffamatori postati dai lettori si sostanzia, in definitiva, in una notevole restrizione della libertà d’espressione. Tuttavia – precisano i giudici – questa limitazione è comunque giustificata e proporzionata per tutelare i diritti di terzi che, altrimenti, sarebbero enormemente compressi.
Strasburgo però definisce dei paletti entro i quali può solo scattare tale responsabilità. Il portale deve avere strumenti per esercitare il controllo preventivo sui commenti, in modo da impedirli o cancellarli per tempo. In altre parole, la natura e la dimensione del sito possono fare la differenza.
Piattaforme come Facebook e YouTube, per esempio, per via dell’enorme mole di dati postati, non potrebbero subire lo stesso trattamento. Mentre invece – è lecito così interpretare il pensiero della Corte – il piccolo sito internet, che può attivare un filtro di ogni contenuto, resta responsabile.
Al soggetto leso dai commenti diffamatori, dunque, non tocca fare causa a chi ha scritto i post. In casi come questo, per motivi puramente tecnici – si legge nella sentenza – appare sproporzionato imporre alla parte lesa l’onere dell’identificazione degli autori dei commenti.
È facile immaginare quale sarà lo scenario che, da oggi stesso, si profilerà sul web. Qualsiasi commento postato dai lettori su un giornale online, su un blog o qualsiasi altro sito sarà controllato, con particolare scrupolo e zelo, dal titolare; cosicché, nel dubbio, quest’ultimo sarà anche portato a moderarlo e, più facilmente, cancellarlo del tutto. Insomma, la sventolata libertà di Internet dovrà fare i conti con la paura dei gestori di siti di doverne rispondere sul piano sanzionatorio. E chiunque, in una simile condizione di incertezza, indosserà facilmente i panni del censore!
Foggia, 14 ottobre 2013 Avv. Eugenio Gargiulo
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