E' recentissima la notizia della morte di Marvin Minsky, pioniere dell'intelligenza artificiale. Famoso per i modi rudi e per le posizioni sprezzanti su molte questioni, pensava che un giorno l'uomo arriverà a delineare una teoria della mente definitiva, ma non sulla base di pochi principi e assiomi matematici. In questo ritratto, frutto di un incontro del 1993, emergono tutti i tratti di una personalità e di una statura scientifica fuori da comune (John Horgan)
Marvin Minsky, pioniere dell'intelligenza artificiale, è morto domenica 24 Gennaio, a Boston, all'età di 88 anni. Per “Scientific American”, Minsky ha scritto due importanti articoli: Artificiale Intelligence, sulle sue teorie delle menti multiple e Saranno i robot a ereditare la Terra? sul futuro dell'intelligenza artificiale. Nel 1993 scrissi un profilo di Minsky per “Scientific American” dopo aver trascorso un pomeriggio con lui nell'Artificial Intelligence Laboratory del MIT, e di nuovo nel libro La fine della scienza (Adelphi, Milano, 1998). Di seguito, è riportata una versione rivisitata e corretta di quest'ultimo ritratto.
Prima di andare a trovare Marvin Minsky al MIT, i colleghi mi avevano avvertito che avrebbe potuto tenersi sulla difensiva, o addirittura rivelarsi ostile. Per evitare che l'intervista finisse presto, non avrei dovuto chiedergli troppo bruscamente delle scarse fortune dell'intelligenza artificiale o delle sue particolari teorie della mente. Un ex membro del suo gruppo mi avvertì di non approfittare della propensione di Minsky per le espressioni esagerate. "Chiedigli sempre che cosa intende dire effettivamente, e se non ripete una cosa tre volte non dovresti utilizzarla”, mi disse.
Quando lo incontrai, Minsky era piuttosto nervoso, ma la condizione sembrava congenita piuttosto che acquisita. Si agitava incessantemente, sbattendo le palpebre, agitando un piede o spostando gli oggetti sulla scrivania. Diversamente dalla maggior parte delle celebrità scientifiche, mi diede l'impressione di concepire nuove idee da zero invece di recuperarle già pronte dalla memoria.
Fu spesso incisivo, ma non sempre. "Ora sto divagando”, mormorò dopo un discorso improvvisato sulla verifica dei modelli di mente sfociato in un mucchio di frasi frammentarie.
Anche il suo aspetto fisico aveva un che d'improvvisato. La grande testa rotonda sembrava completamente calva, ma era in effetti orlata da capelli trasparenti come fibre ottiche. Indossava una cintura intrecciata che sosteneva, oltre ai suoi pantaloni, anche un po' di pancetta, e una piccola custodia contenente una pinza pieghevole. La pancia e i tratti vagamente asiatici lo facevano assomigliava a un Buddha, a un Buddha reincarnato in un hacker iperattivo.
Minsky mi sembrò incapace di provare qualsiasi emozione per lungo tempo, o forse non aveva intenzione di farlo. Cominciò confermando la sua reputazione di riduzionista convinto dai modi burberi, esprimendo disprezzo per coloro che dubitavano che i computer potessero acquisire una coscienza.
“La coscienza è una questione banale", disse. “L'ho già risolta, e non capisco perché la gente non mi ascolti”. La coscienza, nella sua concezione, non era che un tipo di memoria a breve termine, un "sistema di bassa qualità per conservare i dati registrati”. In realtà, i programmi per computer come LISP, che consentono il recupero delle loro fasi di elaborazione, secondo lui erano "estremamente consapevoli", più di quanto lo siano gli esseri umani, con le loro unità di memoria pietosamente limitate.
L'unico teorico della mente che, a parte lui, avesse veramente afferrato la complessità della mente era già morto. “Freud ha elaborato le migliori teorie finora, oltre alla mia, su come si costruisce una mente”, mi spiegò Minsky.
Minsky derideva anche l'ipotesi dei re-entrant loop di Gerald Edelman, definendola una teoria di feedback non particolarmente originale, e snobbava l'Artificial Intelligence Laboratory del MIT, che aveva contribuito a fondare, e dove lo incontrai. “Non ritengo che in questo momento questo sia un serio istituto di ricerca", ebbe a dire.
Ma mentre vagavamo nel laboratorio alla ricerca di una conferenza su un computer che gioca a scacchi, ci fu una metamorfosi. "Questo non è il seminario sugli scacchi che era previsto qui?" chiese Minsky a un gruppo di ricercatori che chiacchieravano in un salotto. “Si è tenuta ieri”, rispose qualcuno.
Dopo aver chiesto del seminario, Minsky snocciolò racconti sulla storia dei programmi per giocare a scacchi. Questa mini-lezione si trasformò in un ricordo dell'amico Isaac Asimov. Minsky disse che Asimov, che rese popolare il termine "robot, esplorando le sue implicazioni metafisiche nei racconti di fantascienza, si rifiutò una volta di vedere i robot del MIT, temendo che la sua immaginazione "potesse appesantirsi al contatto con questo noioso realismo”.
Uno degli astanti, notando che lui e Minsky portavano alla cintura le stesse pinze, estrasse lo strumento dalla fondina e lo aprì puntandolo verso Minsky esclamando: “In guardia!”. Sorridendo, anche Minsky estrasse la sua pinza, incrociandola con quella dello sfidante come in un duello all'arma bianca.
Minsky iniziò a esporre il suo pensiero sulla versatilità, un suo pallino, e sugli inconvenienti delle pinze: la sua, per esempio, lo pizzicava durante certe manovre. “Puoi smontarla utilizzando la stessa pinza?" chiese qualcuno. Tutti risero a questa allusione a un problema fondamentale nel campo della robotica.
Tornando all'ufficio di Minsky, incontrammo una giovane coreana in stato di gravidanza avanzata. Si trattava di una dottoranda che avrebbe dovuto sostenere un esame orale il giorno successivo. "Sei nervosa?" chiese Minsky. “Un po'”, rispose lei. "Non dovresti esserlo", disse Minsky, premendo delicatamente la fronte contro quella di lei, come per cercare d'infonderle la sua forza.
Mi resi conto, guardando la scena, che vi erano molti Minsky, com'era naturale. La molteplicità era un altro punto focale della teoria della mente di Minsky. Nel suo libro “La società della mente” (Adelphi, Milano 1989), egli sostenne che il cervello contiene molte diverse strutture altamente specializzate che si sono evolute per risolvere diversi problemi.
"Possediamo molti strati di reti di apprendimento automatico: ognuno di questi strati si è evoluto per correggere i bachi e per adattare altri elementi ai problemi del pensiero”, sottolineò. “È quindi improbabile che il cervello possa essere ridotto a un particolare insieme di principi o assiomi, perché abbiamo a che fare con un mondo reale e non con un mondo matematico definito da assiomi”.
Secondo Minsky, l'IA non stava rispettando la sua promessa iniziale perché i ricercatori moderni avevano ceduto all'“invidia della fisica", cioè al desiderio di ridurre la complessità del cervello a formule semplici. “Si stanno definendo specializzazioni sempre più spinte che esaminano i problemi in modo più dettagliato, precludendo però quell'ampiezza di videute necessaria per fare le cose in modo diverso”, chiarì Minsky.
I ricercatori di IA non risucivano a cogliere il messaggio di Minsky che la mente ha molti metodi per affrontare anche un solo, semplice problema. Per esempio, se una persona ha un televisore che non funziona, probabilmente prima considera il problema dal punto di vista puramente fisico. Verificherà quindi se l'apparecchio è programmato correttamente, oppure se il cavo è collegato. In caso di esito negativo, la persona può chiamare un riparatore, trasformando così un problema di tipo fisico a un problema sociale, come cercare un tecnico che può fare il lavoro rapido ed economico.
“Questa è una lezione che non sono riuscito a trasmettere ai ricercatori di intelligenza artificiale”, disse Minsky. “Secondo il mio modo di vedere, il cervello ha più o meno risolto il problema di come organizzare metodi diversi per farli funzionale quando essi, presi singolarmente, falliscono abbastanza spesso”.
Via via che Minsky si addentrava nei discorsi, la sua enfasi sulla molteplicità assumeva un tono metafisico e anche morale. Attribuiva i problemi del suo settore - e della scienza in generale – a quello che lui chiamava "il principio d'investimento", definito come la tendenza degli esseri umani a continuare a fare qualcosa che hanno imparato a fare bene invece che a cercare nuove soluzioni.
Minsky sembrava provare una sorta di orrore per la ripetizione, o meglio per il pensiero unico. "Se qualcosa ci piace molto”, disse, “dovremmo trascurare il fatto che questa sensazione ci fa stare bene, perché si tratta di una sorta di cancro al cervello: una piccola parte della nostra mente ha capito come spegnere tutto le altre”.
Minsky acquisì molte competenze durante la sua carriera - era esperto in matematica, filosofia, fisica, neuroscienze, robotica e informatica -, e scrisse persino numerosi racconti di fantascienza, perché amava la sensazione di difficoltà che si prova nell'apprendere qualcosa di difficile. “È così eccitante non essere in grado di fare qualcosa, un'esperienza rara, quasi un tesoro”.
Minsky era stato un bambino prodigio nel campo della musica, fino a quando decise che la musica era soporifera. "Penso che la ragione per cui la gente ama la musica è che sopprime il pensiero - il tipo sbagliato di pensiero - invece di produrlo”, commentò. Minsky talvolta componeva pezzi in stile bachiano su un piano elettrico nel suo ufficio, ma cercava di resistere all'impulso. "A un certo punto, ho dovuto uccidere il musicista che c'era in me", mi disse. "Di tanto in tanto ritorna, e allora devo colpirlo".
Minsky non aveva pazienza per coloro che sostengono la mente non può mai essere pienamente compresa. "Guarda, prima di Pasteur, si diceva 'La vita è diversa; non la si può spiegare meccanicisticamente': qui è esattamente la stessa cosa”, mi spiegò. “Ciò non toglie che una teoria definitiva della mente sarà probabilmente molto complessa: dopo tutto, pensiamo a quanto tempo occorrerebbe per descrivere con precisione tutte le componenti e il funzionamento di un'automobile”.
Secondo Linsky, la correttezza di un modello della mente definitivo avrebbe potuto essere dimostrata in vari modi. In primo luogo, una macchina basata sui principi di tale modello avrebbe dovuto imitare lo sviluppo umano. "La macchina dovrebbe essere in grado di iniziare come un bambino e crescere vedendo film e giocando con le cose", disse Minsky. Inoltre, una volta disponibili tecniche di imaging cerebrale sempre più perfezionate, secondo Minsky, gli scienziati avrebbero dovuto verificare se i processi neurali negli esseri umani viventi corroborassero il modello.
"Una volta raggiunta una risoluzione di un angstrom nelle immagini cerebrali, allora si potrà vedere ogni neurone nel cervello di una persona; dopo aver analizzato il problema per mille anni alla fine si potrà dire di sapere esattamente ciò che accade ogni volta che un soggetto dice 'blu'”, spiegò. “Questo procedimento verrà verificato per generazioni e la teoria funzionerà; andrà tutto per il verso giusto, e questa sarà la fine della storia".
“Se gli scienziati raggiungeranno una teoria definitiva della mente – chiesi - che cosa rimarrà da esplorare”?
«Perché mi sta facendo questa domanda?" ringhiò Minsky. "La preoccupazione che gli scienziati esauriscano i campi di ricerca è pietosa", disse. "Ci sarà sempre molto da fare”. Secondo Minsky, noi esseri umani, una volta raggiunti i nostri limiti come scienziati, avremmo dovuto creare macchine molto più intelligenti di noi in grado di continuare a fare scienza.
“Ma sarebbe una scienza delle macchine, non una scienza umana”, replicai.
"Tu sei un razzista, in altre parole", disse Minsky, mentre la sua grande fronte a forma di cupola diventava paonazza. Scrutai il suo volto in cerca di un segno d'ironia, ma non ne trovai. "Penso che la cosa importante per noi sia crescere", continuò Minsky, “cioè non rimanere nella nostra attuale stupida condizione". Noi esseri umani, aggiunse, siamo solo "scimpanzé vestiti". Per Minsky, il nostro compito non avrebbe dovuto essere quello di preservare le condizioni attuali, ma di evolvere, e di creare esseri più intelligenti di noi.
Quando chiesi quali sarebbero stati gli interessi delle macchine superintelligenti, Minsky suggerì, a mezza bocca, che avrebbero potuto cercare di comprendere se stesse con il procedere della loro evoluzione. Nel discutere la conversione della psiche umana in avatar digitali si dimostrò più entusiasta.
Questo progresso tecnologico, secondo Minsky, avrebbe consentito d'indulgere in attività pericolose, come prendere l'LSD o convertirsi a una fede religiosa. "Considero l'esperienza religiosa molto rischiosa, perché può distruggere il cervello in modo rapido. Certo, se potessimo avere una copia di backup..."
Minsky disse d'interrogarsi su che cosa provasse Yo-Yo Ma, il grande violoncellista, quando suonava in un concerto. Ma, con mia sorpresa, Minsky dubitava che ci potesse essere una risposta. Per provare che cosa provasse Yo-Yo Ma quando suonava, spiegò Minsky, sarebbero stato necessario possedere tutti i ricordi di Yo-Yo Ma, cioè essere Yo-Yo Ma. Ma diventando Yo-Yo Ma, Minsky avrebbe smesso di essere Minsky.
Questa era una straordinaria ammissione da fare per Minsky, perché implicava che l'essenza di ogni individuo umano è irriducibile e inconoscibile.
Nonostante la sua fama di riduzionista arrabbiato, Minsky era un anti-riduzionista. La sua repulsione per il pensiero unico, la sua passione per Freud, per l'apprendimento e per la novità, erano tutti tratti di un romantico della scienza, per il quale la ricerca contava più della semplice conoscenza.
(La versione originale di questo articolo è apparsa su www.scientificamerican.com il 26 gennaio 2016. Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati)
Prima di andare a trovare Marvin Minsky al MIT, i colleghi mi avevano avvertito che avrebbe potuto tenersi sulla difensiva, o addirittura rivelarsi ostile. Per evitare che l'intervista finisse presto, non avrei dovuto chiedergli troppo bruscamente delle scarse fortune dell'intelligenza artificiale o delle sue particolari teorie della mente. Un ex membro del suo gruppo mi avvertì di non approfittare della propensione di Minsky per le espressioni esagerate. "Chiedigli sempre che cosa intende dire effettivamente, e se non ripete una cosa tre volte non dovresti utilizzarla”, mi disse.
Quando lo incontrai, Minsky era piuttosto nervoso, ma la condizione sembrava congenita piuttosto che acquisita. Si agitava incessantemente, sbattendo le palpebre, agitando un piede o spostando gli oggetti sulla scrivania. Diversamente dalla maggior parte delle celebrità scientifiche, mi diede l'impressione di concepire nuove idee da zero invece di recuperarle già pronte dalla memoria.
Anche il suo aspetto fisico aveva un che d'improvvisato. La grande testa rotonda sembrava completamente calva, ma era in effetti orlata da capelli trasparenti come fibre ottiche. Indossava una cintura intrecciata che sosteneva, oltre ai suoi pantaloni, anche un po' di pancetta, e una piccola custodia contenente una pinza pieghevole. La pancia e i tratti vagamente asiatici lo facevano assomigliava a un Buddha, a un Buddha reincarnato in un hacker iperattivo.
Minsky mi sembrò incapace di provare qualsiasi emozione per lungo tempo, o forse non aveva intenzione di farlo. Cominciò confermando la sua reputazione di riduzionista convinto dai modi burberi, esprimendo disprezzo per coloro che dubitavano che i computer potessero acquisire una coscienza.
“La coscienza è una questione banale", disse. “L'ho già risolta, e non capisco perché la gente non mi ascolti”. La coscienza, nella sua concezione, non era che un tipo di memoria a breve termine, un "sistema di bassa qualità per conservare i dati registrati”. In realtà, i programmi per computer come LISP, che consentono il recupero delle loro fasi di elaborazione, secondo lui erano "estremamente consapevoli", più di quanto lo siano gli esseri umani, con le loro unità di memoria pietosamente limitate.
L'unico teorico della mente che, a parte lui, avesse veramente afferrato la complessità della mente era già morto. “Freud ha elaborato le migliori teorie finora, oltre alla mia, su come si costruisce una mente”, mi spiegò Minsky.
Minsky derideva anche l'ipotesi dei re-entrant loop di Gerald Edelman, definendola una teoria di feedback non particolarmente originale, e snobbava l'Artificial Intelligence Laboratory del MIT, che aveva contribuito a fondare, e dove lo incontrai. “Non ritengo che in questo momento questo sia un serio istituto di ricerca", ebbe a dire.
Ma mentre vagavamo nel laboratorio alla ricerca di una conferenza su un computer che gioca a scacchi, ci fu una metamorfosi. "Questo non è il seminario sugli scacchi che era previsto qui?" chiese Minsky a un gruppo di ricercatori che chiacchieravano in un salotto. “Si è tenuta ieri”, rispose qualcuno.
Dopo aver chiesto del seminario, Minsky snocciolò racconti sulla storia dei programmi per giocare a scacchi. Questa mini-lezione si trasformò in un ricordo dell'amico Isaac Asimov. Minsky disse che Asimov, che rese popolare il termine "robot, esplorando le sue implicazioni metafisiche nei racconti di fantascienza, si rifiutò una volta di vedere i robot del MIT, temendo che la sua immaginazione "potesse appesantirsi al contatto con questo noioso realismo”.
Uno degli astanti, notando che lui e Minsky portavano alla cintura le stesse pinze, estrasse lo strumento dalla fondina e lo aprì puntandolo verso Minsky esclamando: “In guardia!”. Sorridendo, anche Minsky estrasse la sua pinza, incrociandola con quella dello sfidante come in un duello all'arma bianca.
Minsky iniziò a esporre il suo pensiero sulla versatilità, un suo pallino, e sugli inconvenienti delle pinze: la sua, per esempio, lo pizzicava durante certe manovre. “Puoi smontarla utilizzando la stessa pinza?" chiese qualcuno. Tutti risero a questa allusione a un problema fondamentale nel campo della robotica.
Tornando all'ufficio di Minsky, incontrammo una giovane coreana in stato di gravidanza avanzata. Si trattava di una dottoranda che avrebbe dovuto sostenere un esame orale il giorno successivo. "Sei nervosa?" chiese Minsky. “Un po'”, rispose lei. "Non dovresti esserlo", disse Minsky, premendo delicatamente la fronte contro quella di lei, come per cercare d'infonderle la sua forza.
Mi resi conto, guardando la scena, che vi erano molti Minsky, com'era naturale. La molteplicità era un altro punto focale della teoria della mente di Minsky. Nel suo libro “La società della mente” (Adelphi, Milano 1989), egli sostenne che il cervello contiene molte diverse strutture altamente specializzate che si sono evolute per risolvere diversi problemi.
"Possediamo molti strati di reti di apprendimento automatico: ognuno di questi strati si è evoluto per correggere i bachi e per adattare altri elementi ai problemi del pensiero”, sottolineò. “È quindi improbabile che il cervello possa essere ridotto a un particolare insieme di principi o assiomi, perché abbiamo a che fare con un mondo reale e non con un mondo matematico definito da assiomi”.
Secondo Minsky, l'IA non stava rispettando la sua promessa iniziale perché i ricercatori moderni avevano ceduto all'“invidia della fisica", cioè al desiderio di ridurre la complessità del cervello a formule semplici. “Si stanno definendo specializzazioni sempre più spinte che esaminano i problemi in modo più dettagliato, precludendo però quell'ampiezza di videute necessaria per fare le cose in modo diverso”, chiarì Minsky.
I ricercatori di IA non risucivano a cogliere il messaggio di Minsky che la mente ha molti metodi per affrontare anche un solo, semplice problema. Per esempio, se una persona ha un televisore che non funziona, probabilmente prima considera il problema dal punto di vista puramente fisico. Verificherà quindi se l'apparecchio è programmato correttamente, oppure se il cavo è collegato. In caso di esito negativo, la persona può chiamare un riparatore, trasformando così un problema di tipo fisico a un problema sociale, come cercare un tecnico che può fare il lavoro rapido ed economico.
“Questa è una lezione che non sono riuscito a trasmettere ai ricercatori di intelligenza artificiale”, disse Minsky. “Secondo il mio modo di vedere, il cervello ha più o meno risolto il problema di come organizzare metodi diversi per farli funzionale quando essi, presi singolarmente, falliscono abbastanza spesso”.
Via via che Minsky si addentrava nei discorsi, la sua enfasi sulla molteplicità assumeva un tono metafisico e anche morale. Attribuiva i problemi del suo settore - e della scienza in generale – a quello che lui chiamava "il principio d'investimento", definito come la tendenza degli esseri umani a continuare a fare qualcosa che hanno imparato a fare bene invece che a cercare nuove soluzioni.
Minsky sembrava provare una sorta di orrore per la ripetizione, o meglio per il pensiero unico. "Se qualcosa ci piace molto”, disse, “dovremmo trascurare il fatto che questa sensazione ci fa stare bene, perché si tratta di una sorta di cancro al cervello: una piccola parte della nostra mente ha capito come spegnere tutto le altre”.
Minsky acquisì molte competenze durante la sua carriera - era esperto in matematica, filosofia, fisica, neuroscienze, robotica e informatica -, e scrisse persino numerosi racconti di fantascienza, perché amava la sensazione di difficoltà che si prova nell'apprendere qualcosa di difficile. “È così eccitante non essere in grado di fare qualcosa, un'esperienza rara, quasi un tesoro”.
Minsky era stato un bambino prodigio nel campo della musica, fino a quando decise che la musica era soporifera. "Penso che la ragione per cui la gente ama la musica è che sopprime il pensiero - il tipo sbagliato di pensiero - invece di produrlo”, commentò. Minsky talvolta componeva pezzi in stile bachiano su un piano elettrico nel suo ufficio, ma cercava di resistere all'impulso. "A un certo punto, ho dovuto uccidere il musicista che c'era in me", mi disse. "Di tanto in tanto ritorna, e allora devo colpirlo".
Minsky non aveva pazienza per coloro che sostengono la mente non può mai essere pienamente compresa. "Guarda, prima di Pasteur, si diceva 'La vita è diversa; non la si può spiegare meccanicisticamente': qui è esattamente la stessa cosa”, mi spiegò. “Ciò non toglie che una teoria definitiva della mente sarà probabilmente molto complessa: dopo tutto, pensiamo a quanto tempo occorrerebbe per descrivere con precisione tutte le componenti e il funzionamento di un'automobile”.
Secondo Linsky, la correttezza di un modello della mente definitivo avrebbe potuto essere dimostrata in vari modi. In primo luogo, una macchina basata sui principi di tale modello avrebbe dovuto imitare lo sviluppo umano. "La macchina dovrebbe essere in grado di iniziare come un bambino e crescere vedendo film e giocando con le cose", disse Minsky. Inoltre, una volta disponibili tecniche di imaging cerebrale sempre più perfezionate, secondo Minsky, gli scienziati avrebbero dovuto verificare se i processi neurali negli esseri umani viventi corroborassero il modello.
"Una volta raggiunta una risoluzione di un angstrom nelle immagini cerebrali, allora si potrà vedere ogni neurone nel cervello di una persona; dopo aver analizzato il problema per mille anni alla fine si potrà dire di sapere esattamente ciò che accade ogni volta che un soggetto dice 'blu'”, spiegò. “Questo procedimento verrà verificato per generazioni e la teoria funzionerà; andrà tutto per il verso giusto, e questa sarà la fine della storia".
“Se gli scienziati raggiungeranno una teoria definitiva della mente – chiesi - che cosa rimarrà da esplorare”?
«Perché mi sta facendo questa domanda?" ringhiò Minsky. "La preoccupazione che gli scienziati esauriscano i campi di ricerca è pietosa", disse. "Ci sarà sempre molto da fare”. Secondo Minsky, noi esseri umani, una volta raggiunti i nostri limiti come scienziati, avremmo dovuto creare macchine molto più intelligenti di noi in grado di continuare a fare scienza.
“Ma sarebbe una scienza delle macchine, non una scienza umana”, replicai.
"Tu sei un razzista, in altre parole", disse Minsky, mentre la sua grande fronte a forma di cupola diventava paonazza. Scrutai il suo volto in cerca di un segno d'ironia, ma non ne trovai. "Penso che la cosa importante per noi sia crescere", continuò Minsky, “cioè non rimanere nella nostra attuale stupida condizione". Noi esseri umani, aggiunse, siamo solo "scimpanzé vestiti". Per Minsky, il nostro compito non avrebbe dovuto essere quello di preservare le condizioni attuali, ma di evolvere, e di creare esseri più intelligenti di noi.
Quando chiesi quali sarebbero stati gli interessi delle macchine superintelligenti, Minsky suggerì, a mezza bocca, che avrebbero potuto cercare di comprendere se stesse con il procedere della loro evoluzione. Nel discutere la conversione della psiche umana in avatar digitali si dimostrò più entusiasta.
Questo progresso tecnologico, secondo Minsky, avrebbe consentito d'indulgere in attività pericolose, come prendere l'LSD o convertirsi a una fede religiosa. "Considero l'esperienza religiosa molto rischiosa, perché può distruggere il cervello in modo rapido. Certo, se potessimo avere una copia di backup..."
Minsky disse d'interrogarsi su che cosa provasse Yo-Yo Ma, il grande violoncellista, quando suonava in un concerto. Ma, con mia sorpresa, Minsky dubitava che ci potesse essere una risposta. Per provare che cosa provasse Yo-Yo Ma quando suonava, spiegò Minsky, sarebbero stato necessario possedere tutti i ricordi di Yo-Yo Ma, cioè essere Yo-Yo Ma. Ma diventando Yo-Yo Ma, Minsky avrebbe smesso di essere Minsky.
Questa era una straordinaria ammissione da fare per Minsky, perché implicava che l'essenza di ogni individuo umano è irriducibile e inconoscibile.
Nonostante la sua fama di riduzionista arrabbiato, Minsky era un anti-riduzionista. La sua repulsione per il pensiero unico, la sua passione per Freud, per l'apprendimento e per la novità, erano tutti tratti di un romantico della scienza, per il quale la ricerca contava più della semplice conoscenza.
(La versione originale di questo articolo è apparsa su www.scientificamerican.com il 26 gennaio 2016. Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati)
Fonte Le Scienze
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