martedì 5 maggio 2015

QUANDO LA DONNA VIENE SVALORIZZATA E ISOLATA: ALCUNI ASPETTI DELLA VIOLENZA PSICOLOGICA

Nell'immaginario collettivo la violenza viene ancora identificata soltanto con quella fisica o 
sessuale, dove "violare" significa prevaricare i confini del corpo, abusare di quello spazio vitale che 
delimita l'io dal tu.

Eppure la stessa violazione è ancor più facile da attuare a livello psichico: infatti non essendo 
esplicita non presenta sintomi abbastanza evidenti da poter essere facilmente individuata neanche 
dalla vittima stessa.

Da un rapporto dell'ISTAT del 2007 risulta in effetti che:7.134.000 donne hanno subito o subiscono 
violenza psicologica di cui le forme più diffuse sono l'isolamento(46,7%), controllo(40,7%), 
svalorizzazione(23,8%). Di queste il 43,2% ha subito violenza dal partner attuale, di cui 3.477.000 l'ha subita sempre o spesso, 1.042.000 hanno subito oltre a quella psicologica anche violenza sessuale e fisica. 

La violenza psicologica agisce talmente in profondità che i sintomi, quali perdita dell'autostima, senso di inutilità, depressione, malessere generalizzato, ansia, attacchi di panico, vengono
sottovalutati o annoverati alle cause più disparate. Infatti è proprio l'incapacità di dare un nome a questo senso di generale  disagio che procura la maggiore sofferenza e alimenta i sensi di colpa una volta che la vittima ne sia divenuta cosciente: la violenza può avere tante forme più sottili ma non per questo meno dannose. 

Tutti quei comportamenti che minano l'autostima, la dignità personale, la voglia di vivere sono 
comportamenti violenti, anche se non comportano un danno fisico. 
Ci sono parole come :"non vali niente", "non sei capace", i tuoi interessi se non sono retribuiti sono una perdita di tempo, comportamenti come la minaccia, il silenzio che evade le risposte e la comunicazione, la derisione, il ricatto, la privazione della libertà, la provocazione continua, l'offesa, la disistima) che nessuna legge punisce ma che possono uccidere psichicamente una persona o almeno ferirla in modo grave e spesso irreversibile. 
Solitamente la violenza psicologica accompagna quella fisica ma può anche essere totalmente 
sconnessa da quest'ultima, in entrambi i casi il messaggio che viene veicolato alla vittima è che essa è un oggetto privo di valore. 

 Senso della parola "svalorizzare": se pensiamo per un attimo alla definizione della parola 
"valorizzazione", il dizionario recita più o meno così: consentire ad una persona di esprimere 
completamente le proprie qualità, capacità e simili"; partendo da questo, il suo esatto contrario 
sarebbe: non consentire ad una persona di esprimere completamente le proprie qualità, capacità e simili"...

A questo punto la domanda che dovremmo porci è: come può avvenire un tale processo? Come si 
può rendere una donna vittima di tale forma di violenza? Come si può "non consentire"?
Strettamente connessa alla violenza da svalorizzazione è l'isolamento. Esso di fatto è sia il fine sia il mezzo che prepara e permette il perpetuarsi della violenza sulla donna, in quanto l'uomo inizia a screditare la donna tra amici e parenti, a litigare e far litigare con loro esprimendo continuamente pareri negativi su quanti stanno vicino alla partner. Lo scopo è quello di fare in modo che lei non abbia la possibilità di confidarsi con nessuno, cosicché lui possa agire il suo controllo in modo indisturbato. Infatti una volta rimasta sola la donna, senza nessuna possibilità di confidarsi e soprattutto, vedendo l'ostilità intorno a lei, comincia a insinuarsi in lei il dubbio che effettivamente è una persona "cattiva", che non vale niente, pensando: se tutti l'hanno allontanata un motivo deve pur esserci! 
Ma le modalità violente arrivano ad essere ancora più subdole, facciamo un esempio: il partner manda spesso messaggi espliciti usando l'aggressione diretta, "sei un'incapace", "non vali niente", oppure utilizzando il sarcasmo e la derisione, ad esempio farsi beffe delle sue convinzioni, dei suoi gusti, 
mettere in dubbio le sue capacità critiche e decisionali, perchè più spesso non si tratta di quello che viene espresso a livello verbale quanto piuttosto di messaggi contrastanti, nel senso che dice una 
cosa e ne esprime un'altra a livello non verbale, mettendo in questo modo la donna in uno stato di 
confusione e nell'incapacità a capire cosa sta succedendo. Nè essa ha possibilità di chiarire, perché 
l'interruzione della comunicazione è un'altra delle manovre che l'aggressore instaura; facciamo un 
esempio: immaginiamo un uomo che non dice alla sua donna in modo esplicito che è brutta e 
trasandata, ma le consiglia spesso di rifarsi i capelli, di truccarsi etc, etc: il messaggio che passa è 
sempre denigrante, e se la donna cerca di comunicare questa percezione negativa ma latente, il 
partner risponde che è troppo emotiva e che travisa sempre quello che lui dice a causa delle sue 
insicurezze e che le sue intenzioni erano buone. Subentra così il dubbio ( "forse sono davvero una 
donna insicura", "probabilmente vedo sempre il negativo delle cose"), si insinua il senso di colpa di chi inizia a subire e con esso un tentativo di perfezionismo per cercare di far in modo che il proprio compagno cambi gli atteggiamenti o l'opinione che ha su di lei.
Proprio perchè si tratta di aggressioni indirette, dice la Hirigoyen, è difficile considerarle 
chiaramente come tali, e quindi difendersene. Per poco che le parole facciano eco ad un'identità 
fragile, a una preesistente mancanza di fiducia, vengono incorporate dalla vittima, che le accetta come verità. 

Con queste parole la Hirigoyen sembra tracciare una sorta di profilo della donna-vittima, quindi una 
donna insicura, che ha bisogno di continue conferme dagli altri. Infatti solitamente l'aggressore 
prende di mira le parti vulnerabili del soggetto, proprio lì dove si annida la sua debolezza. Ma chi non possiede un punto debole? Chiunque può divenire vittima di violenza, poiché è proprio quello che diviene l'aggancio per la svalorizzazione, la quale mette a confronto la vittima con le proprie carenze, traumi irrisolti, incorporazioni negative; queste donne sono forti ma sono vulnerabili perché non essendo sicure delle proprie capacità devono sempre dimostrare a se stesse di esserlo. Stiamo 
parlando di donne naturalmente propense a colpevolizzarsi e proprio a causa di questa colpa 
inconscia che cercano in tutti i modi di espiare che diviene facile farle preda di un processo di 
autosvalutazione. 
Freud ci aiuta a capire come la vittima e l'aggressore funzionino secondo lo stesso meccanismo: una funzione critica molto spiccata, verso l'interno nel primo caso, verso l'esterno nel 
secondo. Per dirla in termini freudiani hanno un Super-Io ipertrofico: esso funge da censore e 
persecutore interno, sempre pronto a giudicare e a colpevolizzare, frutto, secondo Freud, di divieti 
genitoriali troppo rigidi e svalutanti. A causa di questo, le vittime tendono a giustificare il loro 
aggressore, e a cercare i punti dove possono aver peccato: se qualcuno può essere così violento ed 
arrabbiato con loro, sicuramente è perché hanno fatto qualcosa di sbagliato.

L'immagine socialmente condivisa che viene fuori da questo stato di cose è che, la questione della violenza sulla donna, si traduce nei termini "dell'uomo mostro e della donna masochista".
Possiamo allargare i contesti di applicazione di tali dinamiche, per esempio dal contesto lavorativo, 
alle violenze psicologiche e svalutanti a cui le donne sono continuamente sottoposte.
Partiamo dalla definizione di "molestia sul luogo di lavoro" definita comunemente mobbing: 
qualunque condotta impropria che si manifesti attraverso comportamenti, atti, parole o gesti capaci di arrecare offesa alla personalità, dignità o integrità fisica o psichica di una persona, di metterne in 
pericolo l'impiego o di degradare il clima lavorativo. Sempre la Hirigoyen ci ricorda che questa si 
instaura quando un soggetto reagisce all'autoritarismo di un capo e rifiuta di asservirsi, che rifiuta dunque un potere che non condiviso ,viene imposto. Quindi come possiamo dedurre si tratta di un rapporto asimmetrico in cui c'è qualcuno che "attivamente" agisce e qualcuno che "passivamente" subisce. 
Come il concetto di passivo e attivo rimandano nell'immaginario collettivo a quello di femminile e 
maschile questo è ancor più vero in tale contesto: infatti è soprattutto la donna ad essere oggetto di 
molestie. La molestia è sempre preceduta da una svalutazione della vittima, garantita e condivisa dal gruppo… e se ci pensiamo per un attimo, quale bersaglio migliore se non la donna?

Dalle dinamiche tipiche dei gruppi sappiamo che questi tendono a livellare gli individui, mal 
sopportano le differenze, peggio ancora se la differenza significa "donna". In determinati ambiti 
lavorativi tradizionalmente riservati agli uomini è davvero difficile per una donna farsi rispettare. 
I processi che si attivano sono sempre i medesimi. Si destabilizza la donna-vittima veicolando 
un'aggressività implicita che mira a svalorizzare le sue competenze, in questo caso professionali, che se si agganciano a una preesistente mancanza di fiducia, innescano il circolo della violenza: dei 
comportamenti mirati dell'aggressore scatenano l'ansia nella donna, il che provoca un atteggiamento 
difensivo, causa di nuove aggressioni; infatti l'ansia e la paura di non essere all'altezza provocano 
comportamenti disorientati che fungono da alibi per la violenza: "ecco, l'avevo detto che prima o poi 
avrebbe dimostrato la sua incapacità".
Lo scopo dell'aggressore è proprio quello di mantenere a tutti i costi un potere che vede minacciato dalla presenza di una donna. Un potere questo che, inevitabilmente, fonda le sue radici culturali e sociali sin dalla notte dei tempi e che ha la presunzione di definire ciò che è "maschile" e ciò che è "femminile". 

Facciamo un passo indietro e pensiamo all'infanzia del bambino e della bambina, pensiamo alla 
nostra infanzia: sembra che a maschi e femmine attendano 2 diversi destini: la natura sembra aver 
assegnato all'uno un posto di potere e all'altra il posto accanto. Ecco gettate la basi di una relazione di potere che pende, già dagli inizi, da una parte. Possiamo, a ragione, dedurre che la violenza alle 
donne è un fenomeno sociale, quindi accettato e condiviso, causato dalla subalternità delle donne 
rispetto agli uomini.
Torniamo per un attimo all'infanzia: la bambina viene iniziata da subito alla cura, le viene insegnato a prendersi cura delle cose e delle persone, a giocare con le bambole, che altro non sono che un surrogato di una persona: la bambola deve essere vestita, pettinata, fatta mangiare, insomma deve essere curata. Le viene insegnato a farsi bella perché stasera torna papà, o perché stasera ci sono ospiti a cena.
Vediamo invece il maschietto: gli viene insegnato a fare le gare con le macchinine, a smontare e 
rimontare i giocattoli, gli viene insegnato a fare la guerra con i soldatini, a combattere con i mostri, a 
identificarsi con l'eroe dei fumetti di turno; quante volte avete detto da piccoli "voglio essere come 
superman" o come Batman….in poche parole viene educato a esprimere liberamente le proprie 
tendenze aggressive e competitive, perché altrimenti sarebbe una "femminuccia".
Sono forse degli esempi banali ma volevo rendere il più concreto possibile il concetto di educazione 
al femminile e al maschile. Questo per arrivare a dire che la bambina viene educata alla repressione 
dell'aggressività, e per contro educata alla relazione, come fondamento della sua vita, come 
occupazione fondamentale, prima da moglie, poi da madre. La sua vita, è stato già deciso dalle attese 
sociali, sarà caratterizzata dalla dedizione totale a qualcuno. 
Questi sono i modelli che si ripetono di generazione in generazione, che tramandati da madre in figlia mantengono salda questo tipo di "educazione sentimentale".
È importante quindi per la donna liberarsi innanzitutto dallo stereotipo che la virtù principale di una donna sia la lealtà nei confronti dell'uomo, l'abnegazione di sé, la sottomissione e la pazienza poiché l'autonomia e l'affermazione di sé sembrano essere le virtù riservate ai maschi.

Ciò che rende un individuo nel senso letterale del termine, cioè "essere non -diviso" è, come 
ricordavo sopra a proposito della valorizzazione come espressione delle proprie capacità, la 
costruzione di un'identità propria e autonoma.


Da un articolo della Dott.ssa Patrizia Costante

Marilina Fenice Grassi


Nessun commento:

Posta un commento

Rotterdam - Disinformazione democratica

    Rotterdam - Disinformazione democratica Nei giorni scorsi tutte le televisioni (ad iniziare dal TG di SKY) e i giornali (e non soltanto...