Visualizzazione post con etichetta #ricerca. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta #ricerca. Mostra tutti i post

mercoledì 13 luglio 2016

Diabete, tra due anni arriva il pancreas artificiale



Nuove speranze per i 422 milioni di persone nel mondo che soffrono di diabete. Stando a una review appena pubblicata sulla rivistaDiabetologia da due esperti dello Uk National Institute for Health Research, infatti, potrebbe arrivare presto sul mercato – addirittura entro due anni – il primo pancreas artificiale, un dispositivo in grado di controllare in modo intelligente i livelli di glicemia e regolare di conseguenza il rilascio di insulina nell’organismo. Ne abbiamo parlato con Angelo Avogaro, ordinario dell’Università di Padova, uno dei pochi centri al mondo che si occupa, per l’appunto, di ricerca nel campo del pancreas artificiale.

Il pancreas artificiale sarà presto disponibile. Sembra una terapia molto promettente: come funziona?
“Si tratta un device costituito in maniera molto semplice. Consiste in una micropompa (o microinfusore) che contiene l’insulina. Lamicropompa viene comandata da un dispositivo palmare in cui è stato inserito un programma per il rilascio dell’insulina. L’apparecchio comunica con un sensore della glicemia che viene applicato sulla pancia e legge la glicemia minuto per minuto. Il sensore invia dati allo dispositivo tramite bluetooth, e l’apparecchio, grazie a un algoritmo interno, elabora i dati e riesce a fare delle previsioni di quelle che saranno le variazioni della glicemia. In base a queste previsioni il palmare “ordina” al microinfusore di iniettare dosi precise di insulina”.

Quindi qual è la grande differenza tra un normale microinfusore e un pancreas artificiale?
“Facciamo un passo indietro e prendiamo ad esempio il diabete di tipo 1, dove l’unica terapia è quella insulinica perché si tratta di una malattia autoimmune che distrugge le cellule beta, quelle che producono insulina, determinando una carenza assoluta dell’ormone. In alcuni pazienti si può pensare di applicare un rilascio di insulina continuo tramite un microinfusore, che ha, a differenza delle normali iniezioni, la possibilità di programmare la somministrazione grazie a una componente elettronica. Però con un normale microinfusore il paziente deve decidere la quantità di insulina da somministrarsi, mentre il pancreas artificiale pensa per il paziente. Esistono anche dei serbatoi di insulina che si possono inserire all’interno del corpo, in particolare nel peritoneo, però spesso comportano problemi di infezione e altre complicazioni”.

In chiave moderna, ha senso parlare di terapie personalizzate nel trattamento del diabete?
“La parola personalizzazione è un po’ abusata in questo periodo. Diciamo che già trent’anni fa lo si dava abbastanza per scontato: non si può applicare una terapia che non osservi le linee guida delle varie società scientifiche, dalle quali già emerge che esiste un farmaco per ogni paziente. Inoltre la terapia va sempre applicata in funzione di vari parametri, come l’età del paziente, la sua autonomia, il contesto familiare, le patologie associate. Questo modo di intervenire è già una personalizzazione della terapia. Ma il discorso vale soprattutto per il diabete di tipo 2, caratterizzato da una difficoltà dell’insulina a svolgere le sue azioni. Nel tipo 2 esiste anche un’alterazione della secrezione insulinica: le cellule beta hanno difficoltà a produrre l’ormone in risposta alle variazioni della glicemia nel sangue. Sono quindi necessarie terapie diverse rispetto al diabete di tipo 1 che, come già detto, è una malattia autoimmune e l’unico approccio è la terapia insulinica”.

Quanto è importante fare prevenzione?
“È fondamentale, anche se nei pazienti di tipo 1 parlare di prevenzione è dura perché si tratta di una malattia autoimmune. Mentre per il diabete di tipo 2 la prevenzione conta tantissimo. Ci sono per esempio degli studi che dimostrano che adottando degli stili di vita sani si può ridurre in maniera significativa l’incidenza del tipo 2, dove infatti coesiste una forte obesità, che è al tempo stesso un fattore predisponente e un fattore aggravante della malattia. Quindi per esempio dieta, attività fisica o comunque uno stile di vita salubre riescono a ritardare la comparsa del diabete. Certo, se una persona continua a ingrassare o se ha familiarità è chiaro che la comparsa del diabete è ineluttabile. Ma parlare di dieta è sempre complicato perché entrano in campo molti fattori. Di sicuro muoversi, assumere una dieta sana e smettere di fumare può essere d’aiuto”.


Fonte : Galileo

Marilina Lince Grassi



martedì 12 luglio 2016

C’è vita dopo la morte? Sì, lo dimostrano più di 1.000 geni


Uno studio dall'Università di Southampton che ha effettuato test per quattro anni su 2060 pazienti che hanno subito un arresto cardiaco afferma che c'è vita dopo la morte.
Ovviamente, sottolinea Giovanni D'Agata presidente dello “Sportello dei Diritti”, non in senso metafisico come intendono gli esperti, che sostengono che anche quando il cervello cessa di funzionare ed il corpo è clinicamente morto, la coscienza può continuare. Il 40% di coloro che sono sopravvissuti ad un arresto cardiaco evocano una sensazione strana di coscienza.

Il dottor Sam Parnia, che ha condotto lo studio ed è attualmente presso l'Università di New York, lo ha spiegato al Daily Mail: "i test effettuati sin qui suggeriscono che, nei primi minuti dopo la morte, la coscienza non è schiacciata. Non sappiamo se essa svanisce dopo, ma immediatamente dopo la morte, noi siamo ancora consapevoli.
Il cervello non si ferma quando il cuore cessa di battere".
Finora, è stato stimato che coloro che hanno segnalato esperienze di vita dopo la morte erano ritenute vittime "di allucinazioni".
Il 39% dei pazienti intervistati per lo studio si ricorda di essere consapevole di quello che gli è accaduto sino ad arrivare così a mantenere tutti i dettagli. Il 46% ha segnalato una sensazione di paura o persecuzione, il 9% ha sperimentato un'esperienza vicina alla morte e il 2% ha detto di essere pienamente consapevole e di ricordare, in qualche modo, di essere "uscito" dal proprio corpo.
Si ricordano con precisione cosa hanno visto e sentito dopo che il loro cuore si era fermato.
Il dottor Parnia ha così concluso: "la morte non è un momento specifico, ma un processo potenzialmente reversibile che si verifica dopo una grave malattia o un incidente ed il cuore, polmoni e cervello smettono di funzionare.
Molti tentativi sono stati fatti per invertire questo processo, chiamato 'arresto cardiaco'. Ma se non è possibile, noi lo chiamiamo morte".
Questo studio ha voluto indagare "obiettivamente" cosa succede dopo la morte. E senza essere in grado di dimostrare cosa sostengono i pazienti, ha rilevato ciò che è impossibile ripudiare.


La University of Washington che su BiorXiv hanno pubblicato lo studio intitolato “Accurate Predictions of Postmortem Interval Using Linear Regression Analyses of Gene Meter Expression Data” attraverso il quale ci spiegano come siano giunti alla loro conclusione.

Nobles e i suoi colleghi hanno cercato di identificare il momento esatto in cui sopraggiunge la morte di un essere vivente analizzandone l'espressione di centinaia di geni upregolati (aumento di una componente cellulare), nello specifico i soggetti presi in analisi sono stati alcuni esemplari di pesce zebra e di topi. Dai dati raccolti, i ricercatori sono riusciti ad identificare 1.063 geni che si riattivavano o attivavano in seguito alla morte degli animali, stiamo parlando di un arco temporale che varia da 24 ore fino quattro giorni dopo il decesso, come nel caso del pesce zebra.


I geni che “prendevano vita” erano quelli coinvolti in alcuni compiti specifici per il corpo, come stimolare l'infiammazione, attivare il sistema immunitario o contrastare lo stress. Ma non solo. Ciò che ha lasciato a bocca aperta i ricercatori è stata l'attivazione di alcuni geni fondamentali per lo sviluppo e la formazione dell'embrione che, durante il corso della vita, restano latenti. Altri geni coinvolti sono stati quelli considerati “promotori” dello sviluppo del cancro. Proprio quest'ultimo aspetto potrebbe spiegare come mai le persone che ricevono il trapianto da una persona appena deceduta siano più a rischio tumori.


A cosa serve questo studio? Quanto scoperto permetterà a livello forense di identificare meglio l'esatto momento della morte e a livello scientifico di migliorare le procedure per i trapianti di organi. E, come dice lo stesso autore Noble, “questo studio dimostra che è possibile avere più informazioni sulla vita studiando la morte”.

Fonte : FanPage / Sportello dei Diritti

Marilina Lince Grassi




lunedì 11 luglio 2016

Tre stelle per un Pianeta



La conoscenza sempre più profonda dell'Universo ci sta abituando all'idea che le meraviglie del cosmo superano, spesso e volentieri, la più fervida immaginazione umana: e così, dopo aver scoperto che i pianeti come Tatooine non esistono soltanto nella realtà di Luke Skywalker, adesso scopriamo addirittura che possono esserci mondi che, a seconda della stagione, sperimentano tripli tramonti e triple albe in una giornata sola.

HD 131399Ab, il pianeta con tre Soli

Sì, perché il pianeta HD 131399Ab, recentemente individuato dagli astronomi della University of Arizona di Tucson, ha un'orbita allargata che conduce attorno ad un sistema stellare triplo. Collocato a circa 340 anni luce dalla Terra, in direzione della costellazione del Centauro, questo mondo straordinario ha circa 16 milioni di anni d'età, un fatto questo che ne fa uno dei più giovani esopianeti osservati direttamente. Con una temperatura di circa 580 gradi Celsius e una massa pari a circa quattro volte quella di Giove, HD 131399Ab rappresenta uno dei più freddi e uno dei meno massicci pianeti dei quali si sia ottenuta un'immagine diretta.

L'orbita del pianeta dura circa 550 anni terrestri e, per la sua metà, è accompagnata dalla vista di tre stelle in cielo, con le due più deboli sempre più vicine tra loro e con la loro apparente distanza dalla stella più brillante che muta durante l'anno, a causa del movimento.

In questo modo, HD 131399Ab mostra una varietà di paesaggi veramente ricca: per la gran parte dell'anno, le stelle appaiono vicine nel cielo, sorgono e tramontano assieme, offrendo alternanza tra giorno e notte. Lungo la sua orbita, però, il pianeta vedrà le stelle distanziarsi (apparentemente) sempre più le une dalle altre, fino a quando non si troverà in una situazione per cui il tramonto dell'una coincide con l'alba dell'altra: questo accade per circa un quarto dell'orbita e, quindi, per circa 140 anni terrestri.

Il sistema stellare HD 131399

Numerose osservazioni, nel tempo, sono state necessarie per determinare con precisione quale fosse la traiettoria del Pianeta tra le sue stelle madri. Tra simulazioni e osservazioni si è concluso che la stella più brillante HD 131399A, che è più massiccia del Sole di circa l'80%, ha due stelle meno massicce, B e C, che ruotano attorno, ad una distanza di circa 300 Unità Astronomiche (cioè, 300 volte la distanza media tra Terra e Sole). B e C, inoltre, ruotano l'una intorno all'altra ad una distanza pari a quella che separa il Sole da Saturno (ossia 10 Unità Astronomiche).


Il pianeta HD 131399Ab, quindi, orbita attorno alla stella A a circa 80 UA (ossia con un'orbita doppia a quella di Plutone), trovandosi quindi a un terzo della distanza che c'è tra A e le altre due stelle. Gli astronomi specificano che c'è una varietà di scenari orbitali possibili.


Ma un sistema del genere è stabile? Gli autori non si sbilanciano e spiegano saranno necessarie altre osservazioni, già pianificate, per rispondere a questo ed altri interrogativi relativi alla misura dell'orbita.


La scoperta è stata effettuata grazie a SPHERE (Spectro-Polarimetric High-Contrast Exoplanet Research Instrument) parte del Very Large Telescope dell'European Southern Observatory, situato nel deserto cileno di Atacama. I dettagli del lavoro sono stati pubblicati da Science.

Fonte Fanpage Scienza

Marilina Lince Grassi







domenica 10 luglio 2016

CNR: Dimostrato il legame tra sviluppo cerebrale e comportamenti antisociali



Il cervello degli adolescenti con gravi comportamenti antisociali è molto differente dal punto di vista anatomico rispetto a quello degli adolescenti che non mostrano tali comportamenti. A dimostrarlo, una nuova ricerca internazionale condotta in collaborazione da l’Università degli Studi di Roma ‘Tor Vergata’ e il Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr). Nello studio ‘Mapping the structural organization of the brain in conduct disorder: replication of findings in two independent samples’ delle Università di Cambridge e Southampton, pubblicato sulla rivista internazionale Journal of Child Psychology and Psychiatry, gli scienziati italiani e inglesi hanno utilizzato metodiche di risonanza magnetica per visualizzare la struttura cerebrale di adolescenti maschi con diagnosi di disturbo della condotta sociale, un grave problema neuropsichiatrico caratterizzato da estrema aggressività, uso ripetuto di armi e droghe e comportamenti menzogneri e fraudolenti.

“Nello specifico, abbiamo studiato lo sviluppo coordinato di numerose regioni del cervello, prendendo in riferimento in particolare lo spessore della corteccia cerebrale”, dice Luca Passamonti dell’Istituto di bioimmagini e fisiologia molecolare del Cnr (Ibfm-Cnr), attualmente in forza all’Università di Cambridge. “L’idea alla base dello studio è che le regioni cerebrali che si sviluppano in modo simile abbiano spessori corticali di livello comparabile. Studi precedenti, nostri e di altri gruppi di ricerca, avevano già dimostrato che l’amigdala degli adolescenti con gravi disturbi della condotta sociale presenta anomalie rispetto a quella di soggetti di pari età che non dimostrano tali comportamenti. Tuttavia, ritenevamo troppo semplicistico ricondurre problematiche della condotta così complesse ad anomalie in una singola regione cerebrale, ancorché importante come l’amigdala, e infatti i nostri ultimi dati hanno chiaramente mostrato che il disturbo della condotta sociale coinvolge moltissime regioni del cervello che presentano cambiamenti anatomici di natura complessa e sfaccettata”.
Lo studio è stato promosso e finanziato dal Wellcome Trust e Medical Research Council nel Regno Unito. I ricercatori hanno reclutato 58 adolescenti maschi con disturbo della condotta sociale (33 partecipanti nella forma che emerge nella fanciullezza, 25 nella forma che compare durante la fase adolescenziale) e 25 individui non affetti da malattie neuropsichiatriche, di età compresa tra 16 e 21 anni. I ricercatori hanno trovato che le persone con il disturbo del primo tipo, rispetto ai soggetti di controllo, mostravano un elevato numero di correlazioni nella corteccia cerebrale che potrebbe dipendere da anomalie dello sviluppo, cioè da una ridotta perdita di spessore della corteccia che normalmente si osserva con gli anni. I giovani con disturbo che emerge durante l’adolescenza presentavano un minor numero di tali correlazioni e questo potrebbe riflettere uno specifico problema di sviluppo, ad esempio l’incapacità di selezionare le connessioni simpatiche più forti e durature.
I risultati ottenuti sono stati replicati e confermati in un altro campione di 37 individui con disturbo e 32 individui di controllo, tutti maschi di età tra 13 e 18 anni, reclutati all’Università di Southampton.

“Le differenze che abbiamo riscontrato dimostrano che gran parte del cervello è coinvolto in questa malattia neuropsichiatrica – commenta Graeme Fairchild del Dipartimento di psicologia dell’Università di Southampton -. Il disturbo della condotta sociale è un reale problema cerebrale e non, come alcuni ancora sostengono, semplicemente una forma di esagerata ribellione alle regole della società. I risultati dimostrano anche che ci sono differenze cerebrali molto significative tra gli individui che sviluppano tale disturbo nella fanciullezza o durante l’adolescenza”.
“Non c’è stato mai alcun dubbio che malattie come l’Alzheimer siano dipendenti da gravi disturbi del cervello soprattutto perché le metodiche di risonanza magnetica ci hanno sempre permesso di visualizzare tali danni, anche nei singoli pazienti”, aggiunge Nicola Toschi, docente in fisica applicata all’Università di Roma ‘Tor Vergata’. “Tuttavia, prima del nostro studio, non eravamo stati mai in grado di visualizzare in modo chiaro le diffuse anomalie anatomiche che sono presenti nel cervello degli adolescenti con il disturbo della condotta sociale”.
Rimane ancora da stabilire la combinazione di fattori genetici ed ambientali che possa portare alle anomalie cerebrali osservate. I ricercatori confidano che i risultati ottenuti possano portare allo sviluppo di marcatori oggettivi che consentano di monitorare in modo preciso l’andamento dei disturbi della condotta sociale e soprattutto l’efficacia dei trattamenti disponibili.

“Ora che siamo capaci di produrre una mappa delle anomalie nell’intero cervello degli adolescenti con disturbo della condotta sociale potremmo, in un futuro non troppo lontano, vedere se le terapie disponibili siano capaci di influenzare la maturazione del cervello e di ridurre tali comportamenti”, conclude Ian Goodyer del Dipartimento di psichiatria dell’Università di Cambridge.

Fonte : Le Scienze

Marilina Lince Grassi


lunedì 20 aprile 2015

UNA VITA PER LA SINDONE


Pierluigi Baima Bollone  medico e pubblicista è professore ordinario di Medicina legale nell’Università di Torino.  Fondatore e direttore del dipartimento «Diagnosi e prevenzione» dell’ospedale Gradenigo.
 Autore di moltissime pubblicazioni scientifiche e di un  «Manuale di Medicina legale» adottato in numerose sedi universitarie. Noto saggista a livello internazionale, ha scritto opere  ampiamente tradotte all’estero, occupandosi  particolarmente della vita di Gesù e soprattutto della Sindone.
È il presidente Onorario del «Centro Internazionale di Sindonologia» di Torino, unica istituzione ufficiale per lo Studio della Sindone. ( M.F.G )

Ha dedicato una  intera vita  alla  Sindone. Da quando, fin da bambino, i suoi genitori gli parlavano del Sacro Lino e lui  affascinato li ascoltava, non potendo certo immaginare che, dopo che nel 1969 una commissione di esperti nominata dall’arcivescovo di Torino aveva ipotizzato la presenza di tracce di siero, sarebbe stato il primo patologo al mondo in grado di analizzarle.

Professor Pierluigi Baima Bollone, come è avvenuta la scoperta di microtracce di materia nel tessuto?
«Analizzando nel ’78 dodici fili sottratti al lenzuolo, e una microcrosta di pochi millesimi di millimetri, prelevata con una équipe di scienziati svizzeri. Ma l’idea era stata mia. Così ho scoperto che si trattava di sangue umano, con tanto di gruppo sanguigno. E poi, con l’aiuto di alcuni specialisti di dna, anche alcune delle sue caratteristiche».
Come mai avevano incaricato lei?

«Negli Anni 70 ero un giovane e pimpante medico legale che si interessava di microtracce: don Coero-Borga mi aveva chiesto se ero in grado di stabilire se le macchie sulla Sindone fossero davvero di sangue. Una sfida che ho colto al volo. Ho portato quei dodici fili nel mio laboratorio di corso Galileo Galilei 22 e li ho analizzati sia con il microscopio ottico, sia con quello elettronico a scansione. E poi la meravigliosa scoperta».

Che sensazioni ha provato quando si è trovato per la prima volta a tu per tu con il Lenzuolo?

«È stato un momento che non potrò mai dimenticare. Ero con altri patologi nella biblioteca di Palazzo Reale che aveva le finestre oscurate da sacchi neri messi da noi. Il Lenzuolo era appoggiato su un lungo tavolo illuminato da una luce radente inclinata di 45 gradi per prelevare i frammenti di stoffa, noi stavamo seduti a turno su un trespolo. Quando è toccato a me, ho avuto l’impressione che l’immagine prendesse corpo. Era come se la vedessi in tre dimensioni, e ho pensato che i miei occhi mi stessero facendo un brutto scherzo».
A quando risalgono i suoi ultimi rapporti con il Sacro Lino?

«Non sono mai terminati. Disponendo ancora di alcuni preparati di allora, con l’aiuto di Grazia Mattutino, una delle più importanti criminologhe, i miei studi vanno avanti. E qualche tempo fa abbiamo individuato le particole d’oro e d’argento riferibili al reliquario che conteneva la Sindone durante l’incendio di Chambéry del 1532».

Con che spirito vive l’Ostensione che inizia oggi?

«Con grande partecipazione emotiva, anche se in questi giorni mi sono trovato in diverse occasioni al suo cospetto in occasione della preparazione dell’evento. Verrò a osservarla quasi tutti i giorni, perché il suo effetto ai miei occhi di pellegrino, più che di scienziato, continua a essere decisamente traumatizzante».

Quanto la sua vita è cambiata dopo quegli studi?

«La Sindone è stata molto più di un semplice oggetto di studio. Oltre a contribuire alla mia formazione umana, ha condizionato favorevolmente tutta la mia successiva attività professionale».


Lei si è definito cattolico apostolico romano: un credo che ha condizionato l’interpretazione data alle sue origini?

«L’educazione che ho ricevuto e il mio senso della spiritualità non hanno niente a che vedere con le convinzioni che ho sulla Sindone. Sono certo, per ragioni razionali e scientifiche, che quello di cui stiamo parlando sia il Lenzuolo con cui è stato avvolto Gesù Cristo duemila anni fa. Lo direi anche se fossi ateo. E tra i ricercatori che credono nella sua genuinità ci sono numerosi ebrei, protestanti e agnostici».

Cosa si sentirebbe di dire a chi ritiene sia un falso?


«Di rimanere nelle sue convinzioni, ma che si sta sbagliando, enunciandogli dettagliatamente tutte le ragioni che fanno propendere per la sua assoluta veridicità. Anche perché il calcolo delle probabilità parla di una possibilità su 225 miliardi che la Sindone sia falsa».





Rotterdam - Disinformazione democratica

    Rotterdam - Disinformazione democratica Nei giorni scorsi tutte le televisioni (ad iniziare dal TG di SKY) e i giornali (e non soltanto...