Il Festival di Sanremo è notoriamente una delle trasmissioni televisive più seguite in Italia. Proprio nel corso di questa trasmissione la RAI, televisione di Stato (è bene sottolinearlo) ha deciso di mandare in onda uno spot dello sfruttamento e di una concezione servile del lavoro, in questi anni molto in auge. Tale Salvatore Nicotra, è stato presentato come “impiegato modello”, in quanto “in 40 anni di carriera non ha fatto neanche un giorno di malattia”. Ci sarebbe da chiedersi quale sarebbe il merito in questo fatto. Se un lavoratore si ammala, per quale motivo non dovrebbe usufruire del suo legittimo diritto alla malattia? E dove sarebbe il merito, invece, nel non ammalarsi, oppure, nel lavorare anche quando si è ammalati? Forse, si tenta di instillare una senso di colpa in coloro che esercitano il diritto di non lavorare quando sono ammalati? Forse si richiede ai lavoratori di rinunciare a un loro diritto? In nome di che cosa? Della “produttività” ad ogni costo? Oppure della rinuncia a qualsiasi tutela?
Si sottolinea, inoltre, che il signore avrebbe rinunciato a 239 giorni di ferie, che avrebbe devoluto alla sua città. Anche qui, dietro l’encomio di un singolo individuo si nasconde un’implicita, ma non innocua,esortazione a privarsi dei propri diritti; non solo alla malattia, bisogna rinunciare anche alle ferie, possibilmente lavorare tutto l’anno, per essere considerati “impiegati modello”. Evidentemente chi dopo mesi di lavoro decide di godersi un po’ di riposo dovrebbe essere, secondo la RAI, guardato con sospetto, o comunque essere giudicato un po’ meno meritevole rispetto a chi invece lavora come un mulo senza mai lamentarsi. Strana coincidenza, l’inno allo sfruttamento appare proprio mentre il Consiglio dei Ministri discute la Riforma del Pubblico impiego, animata dalla crociata contro l’assenteismo, che sembra essere diventato l’ultimo capro espiatorio sul quale scaricare tutti i dissesti di uno Stato destrutturato.
La Riforma Madia da un lato adopera una forma di terrorismo psicologico, con la minaccia del licenziamento “facile”, dall’altro intende premiare i comportamenti giudicati “virtuosi”. I premi di produttività sono un aspetto controverso, di dubbia efficacia, che sono entrati nel mondo del lavoro accettati acriticamente da tutti, anche dai sindacati. Essi dipendono da ciò che viene considerato di volta in volta come “produttivo” e dalle figure che dovrebbero esprimere tale giudizio, questione tutt’altro che scontata e di facile risoluzione (pur al netto delle varie antipatie e dei vari interessi personali). A questo aspetto controverso, come se non bastasse, se ne aggiunge un altro, cioè il tentativo della riforma di vincolare gli incentivi alla riduzione dell’assenteismo. E come bisognerebbe ridurlo, questo assenteismo? Posto che, naturalmente, i colpevoli sono da perseguire a norma di legge, come era previsto ben prima della riforma Madia e alla crociata di questi mesi, quali sarebbero gli effetti di questa norma? Indurre a lavorare con l’influenza per ottenere l’incentivo? Se lo sono posti questo problema i promotori della riforma? Siamo sempre nella logica del signor Nicotra – o, per meglio dire, di coloro dei quali egli è strumento – l’assenza pur giustificata dal lavoro vissuta come una colpa, che andrebbe ridotta il più possibile. “Desidero dire che non tutti i dipendenti pubblici sono fannulloni” dice l’impiegato modello ma dopo la difesa di ufficio, i dipendenti pubblici tornano subito sul banco degli accusati:
«Voglio parlare al cuore e al sentimento dei dipendenti pubblici: quando vi vengono le idee di fare i furbetti, o di creare malattie inesistenti, vi prego, questo è mortificante per tutti i giovani precari che lavorano e dopo tre, quattro cinque mesi, perdono il lavoro e la loro dignità, e perdono anche la testa»
Siamo all’apoteosi del moralismo neoliberale. Il lavoro precario concepito non come un effetto di una struttura sociale deregolamentata, ma come un male inevitabile, alla stregua di una catastrofe naturale, invece che una scelta precisa delle élite neoliberali, e che i “fortunati” impiegati che ancora hanno il leggendario “posto fisso” devono dimostrare di non meritare. Non contento, il nostro modello – cui non intendiamo qui attribuire nessuna colpa – rincara la dose:
«Lo stipendio per tutta la vita è un privilegio, noi dipendenti pubblici facciamo parte di un comparto fondamentale della società»
Ecco. Il lettore avrà notato una parola, “privilegio”. Siamo dunque al cuore della concezione moralistica del lavoro, lo stipendio è un privilegio, il posto fisso è una concessione, una “fortuna”, qualcosa cui non si avrebbe alcun diritto, perché la “normalità” sarebbe fatta da quella precarietà di cui si è poco prima fatta una lacrimevole commiserazione. I dipendenti pubblici, quindi, non devono in alcun modo lamentarsi, perché essi sono titolari di una condizione privilegiata, tanto più se hanno un lavoro fisso; la loro situazione deve essere vissuta con un senso di colpa onnipresente, con la convinzione di essere dei “graziati” da un sistema di sfruttamento che in genere non risparmia e verso cui bisogna mostrare riconoscenza per questa immeritata quanto rara grazia ricevuta. Lavorare, rinunciando ai propri diritti – ridenominati privilegi – lavorare troppo, lavorare in pochi, questo può essere lo slogan con cui riassumere il vergognoso “siparietto” di Sanremo. Dietro si cela il moralismo della produttività, l’idea che bisogna “ridurre i tempi morti”, quasi che il tempo in cui non si lavora sia inutile, quasi che tutta l’esistenza umana debba ruotare attorno all’attività lavorativa. “Produci, consuma, crepa” cantavano i CCCP e coloro che non possono lavorare, relegati all’“esercito industriale di riserva”, come diceva Marx, sono bollati come falliti, fannulloni, parassiti.
Eppure diverse ricerche dimostrano che la resa del lavoratore aumenta e non diminuisce al ridursi dell’orario di lavoro, essendo questi meno stressato e più appagato (Chissà se, per questa via, creando lavoratori più soddisfatti, non si riducesse anche l’assenteismo!). La concezione moralistica che vede illavoro come momento di espiazione del peccato originale – l’ozio, inteso come astensione volontaria dal lavoro – rende un servizio al capitalismo. Ridurre il carico di lavoro presenta diversi benefici: significa ancheridurre la disoccupazione, migliorare l’esistenza individuale, e concepire la vita extra-lavorativa non come “relax”, reintegro delle energie necessarie alla produzione, e quindi subalterna rispetto la tempo di lavoro, ma come momento dell’esistenza umana di pari valore, ugualmente meritevole di attenzione e ugualmente benefico alla società. I “Nicotra” si godano, quindi, le loro ferie, tutte quante e non un giorno di meno. Chiedano, anzi, pretendano, di lavorare di meno, non di nascosto e attraverso il raggiro, ma pubblicamente e collettivamente, perché la loro inattività sarebbe lavoro per altri e perché potranno apprendere altri modi per dare il loro contributo alla comunità, sebbene non dentro un ufficio; e, forse, potrebbero anche scoprire la bellezza di una vita fondata sull’otium.
fonte http://www.lintellettualedissidente.it/
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