Un grande giacimento di petrolio al largo della Nigeria è al centro di uno scandalo finanziario che si svolge tra il paese africano, il Regno Unito, i Paesi Bassi e ormai anche l’Italia. È noto con la sigla Opl 245 e si trova al limite meridionale del delta del fiume Niger, in mare, tra i 1.700 e i duemila metri di profondità. Racchiude circa nove miliardi di barili di petrolio greggio, abbastanza da farne il più grande giacimento noto in Africa.
Nel 2011 l’italiana Eni e l’anglo-olandese Royal Dutch Shell hanno acquistato la concessione dell’intero blocco pagandola 1,3 miliardi di dollari. Ma quei soldi non sono andati nelle casse dello stato nigeriano, se non in minima parte. E ora quel contratto è oggetto di indagini giudiziarie in Nigeria, in Italia e nei Paesi Bassi.
La storia della licenza Opl 245 rivela qualcosa su una delle industrie più opache al mondo, quella dell’estrazione petrolifera. Protagonisti sono un ex ministro del petrolio nigeriano, accusato di aver sottratto i soldi versati dalle compagnie petrolifere; una ditta di facciata, la Malabu oil and gas, dietro a cui si nasconde lo stesso ex ministro; alcuni intermediari di varie nazionalità, affaristi, un paio di ex agenti del controspionaggio britannico.
Transazioni sotto inchiesta
E alcuni tra i massimi dirigenti dell’Eni e della Shell, da più parti accusati di sapere benissimo con chi avevano a che fare e dove sarebbero finiti i loro pagamenti. Le due aziende hanno sempre respinto l’accusa. L’Eni sostiene di aver avuto solo regolari transazioni con il governo nigeriano. La procura di Milano non ne è convinta: l’8 febbraio scorso ha chiesto il rinvio a giudizio di undici persone, tra cui l’attuale amministratore delegato dell’Eni Claudio Descalzi, il suo predecessore, Paolo Scaroni, e il faccendiere Luigi Bisignani – oltre all’Eni e la Shell come entità giuridiche.
L’udienza preliminare è fissata per il 20 aprile, al tribunale di Milano spetta decidere se accogliere la richiesta, ovvero se ci sarà un processo. Guardato in prospettiva, lo scandalo del giacimento nigeriano è l’ennesimo esempio di come le risorse naturali del paese siano servite ad arricchire una piccola élite di affaristi locali, con la complicità più o meno chiara di imprese occidentali, a scapito dei comuni cittadini e dello sviluppo della nazione. Forse però bisogna fare un passo indietro.
L’ex ministro e i faccendieri
Lo scandalo Olp 245 è emerso alla fine del 2012, quando due intermediari d’affari che avevano lavorato per la Malabu, un nigeriano e un russo, si sono separatamente rivolti a due tribunali di arbitrato a Londra. In particolare, tale Emeka Obi reclamava 214 milioni di dollari a titolo di commissione per il contratto concluso con l’Eni e la Shell. La corte commerciale di Londra ha condotto la sua istruttoria, chiamando a deporre diversi testimoni, che hanno poco a poco delineato cosa stava dietro al contratto per il giacimento più ricco della Nigeria.
Tutto è cominciato quando, nel 1998, l’allora ministro del petrolio nigeriano Dan Etete ha dato il blocco 245 in concessione alla Malabu oil and gas. Allora non era ben chiaro chi fosse dietro all’azienda, sconosciuta, senza esperienza di industria petrolifera né dipendenti, costituita solo pochi giorni prima di ricevere la concessione. Ormai invece è chiarissimo, ed è lo stesso Etete: in pratica si era regalato uno dei giacimenti più redditizi del paese (la Malabu pagò due milioni per quella concessione multimiliardaria).
La Nigeria era governata allora da un militare, il generale Sani Abacha. In seguito il presidente Goodluck Jonathan, suo successore, ha urlato allo scandalo e ha tolto la concessione alla Malabu. La Shell allora ha acquistato parte della concessione, e ha cominciato le esplorazioni. Poi la Malabu ha vinto un ricorso e rivendicato la concessione.
La controversia legale tra la Shell e la Malabu su chi avesse diritto su quel giacimento si è trascinata per anni. È allora che Shell ha assunto due ex agenti dell’Mi6, il controspionaggio britannico (oggi Sis), perché aiutassero a trattare con Etete e con il governo nigeriano per sbloccare la situazione.
Dan Etete è una figura in sé sconcertante. Il consorzio di giornalisti investigativi africani Sahara Reporters ha ricostruito in modo dettagliato come questo signore, oggi di 72 anni, abbia saputo usare il suo mandato di ministro del petrolio tra il 1995 e il 1999 per costruire un sistema di società anonime che gli hanno permesso di “ripulire” centinaia di milioni di dollari estorti a varie compagnie petrolifere, trasferendoli su conti bancari all’estero (pare che abbia aperto conti intestati a familiari dell’allora presidente Abacha).
Tutto questo con l’aiuto dell’avvocato ginevrino Richard Granier-Deferre, grande esperto di manovre finanziarie. Nel 2007 Etete è stato condannato in Francia per riciclaggio di denaro. I due ex agenti dell’Mi6 che hanno trattato con lui durante “grandi pranzi con molto champagne ghiacciato”, lo descrivono come uno che “ha fiutato il denaro”: così scriveranno in alcune email ora agli atti delle indagini svolte dalla procura dell’Aja, nei Paesi Bassi.
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