venerdì 13 dicembre 2013

Aumentano le preoccupazioni per i Marò



Dietro il processo di Salvatore Girone e Massimiliano Latorre c’è molto più di quanto non si possa immaginare: oltre all’aspetto puramente giuridico, ci sono da considerare le tensioni politiche tra il governo centrale e quello dello stato del Kerala, che è in mano all’opposizione nazionale e quindi cerca di creare un caso per mettere in imbarazzo Sonia Ghandi di dichiarate origini italiane, costringendola a scegliere se tutelare la sua immagine internazionale o esporsi ad ulteriori critiche di essere filostraniera.

Strategia che a quanto pare ha pagato, considerata la batosta subita nelle elezioni regionali di domenica scorsa, a premessa di quelle nazionali della prossima primavera, dal partito Indian National Congress, al governo, di Sonia Gandhi. Il partito di opposizione, il nazionalista Hindu “Bharatiya Janata Party” (BJP), ha vinto in tutti e 4 stati, tra cui la capitale Delhi, conquistando ben 31 seggi, solo 3 seggi in meno della maggioranza richiesta per formare il governo. Il  partito del Congresso, che ha governato nella capitale negli ultimi 15 anni, ha ottenuto solo 8 seggi, superato persino dal partito Aam Aadmi Party (AAP), formatosi lo scorso anno dopo una crociata anti-corruzione, che ha ottenuto ben 28 seggi. Questi risultati indeboliscono fortemente la Gandhi, la cui nazionalità Italiana pesa negativamente e, di conseguenza, una condanna dei 2 Marò sarebbe un’ulteriore sconfitta politica della Gandhi.

Ma questi sono dati sotto gli occhi di tutti. In termini di diritto internazionale, aspetto assai meno sottolineato dalla stampa, gli elementi da considerare sono di portata ancora più vasta: supponiamo solo per un attimo che i due militari, in servizio per conto del Governo Italiano, con qualifica di polizia giudiziaria ed applicazione del codice penale militare, vengano considerati colpevoli di atti di terrorismo. Necessariamente, per l’ordinamento internazionale, ci troveremmo davanti ad un casus belli, perché un rappresentante del Governo Italiano, in nome del Governo Italiano ha compiuto un chiaro atto ostile.

La situazione, così, vede da una parte l’Italia che non può subire passivamente l’accusa ad essa  rivolta, nemmeno tanto nascostamente, di terrorismo e dall’altra l’India che non può accettare passivamente che l’Italia compia atti di terrorismo nel proprio territorio.

In entrambi i casi la prospettiva è assai poco allettante, sia per i risvolti giuridici internazionali e sia per i rapporti economici tra i due paesi, considerando anche che l’Italia versa cospicue somme all’India per finanziare il suo sviluppo economico.

Anche sul piano geopolitico la situazione non è di poco conto: comunque si concluda il processo, cioè ci sia o meno una condanna, si pone una questione che coinvolge la legittimità stessa ed i fondamenti giuridici delle missioni internazionali per la lotta alla pirateria.

Esse partono dal presupposto che coloro che operano in questo campo siano esenti dalla giurisdizione degli Stati nazionali, se non da quello di bandiera, e si basano su una definizione di pirateria a livello internazionale, in ciò valendosi tanto della Convenzione di Montego Bay del 1980, quanto della Convenzione per la lotta alla pirateria internazionale.

Se invece la definizione di pirateria iniziasse a dipendere dalle singole legislazioni nazionali e venisse meno l’immunità degli agenti governativi si rischierebbe il caos, in cui chi aggredisce la nave commerciale può essere considerato da questo o da quello Stato un legittimo esercente attività, ad esempio, di protesta, con il rischio che ogni attività anti-pirateria diventi possibile reato. Soprattutto quando taluni stati, per proprio comodo, decidessero di ‘fare cassa’ a spese di nazioni più ricche.

Allo stesso modo lo sarebbe l’attività di prevenzione del terrorismo, il soccorso umanitario, le missioni di pace, che si basano su parametri analoghi di definizione univoca ed immunità funzionali. Forse è questa la principale ragione per cui, da oltre un anno si cercano le più svariate scuse per rinviare un processo che nessuno ha realmente interesse a celebrare.

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