Un anno fa, iniziai queste periodiche corrispondenze con alcune riflessioni sulla questione dei nostri ‘marò’. Ne descrivevo allora i parametri di diritto internazionale; attribuivo il ritardo nella formulazione delle imputazioni, e il mancato ricorso ad istanze internazionali, alla presumibile comune intenzione di trovare una via d’uscita extra-giudiziaria; deploravo la sommarietà del rapporto instaurato fra armatori e Marina Militare. La situazione, nel frattempo, non si è affatto chiarita. L’articolo dell’ex Ambasciatore in India Armellini sul Corriere della Sera del 15 febbraio lo descrive esaurientemente, in modo particolarmente esplicito.
L’inverosimile ipotesi di una imputazione di terrorismo, e del conseguente rischio della pena di morte, ha a lungo offuscato la comprensione dei termini della questione. Il nostro governo si sarebbe finalmente deciso, dopo due anni, a fare quanto avrebbe dovuto sin dall’inizio della vicenda: ricorrere cioè alla solidarietà politica dei nostri soci europei ed americani, al conforto giuridico della struttura delle Nazioni Unite, deferire la questione ad un arbitrato internazionale o Tribunale di Amburgo ai sensi della Convenzione di Montego Bay sul diritto del mare. Si è preferito invece procedere all’italiana, in modo non contundente, per vie interne, contando sulla nostra fama di ‘brava gente’.
Oltre alle nostrane reticenze
ne è però sorprendentemente emerso, altrettanto chiaramente, il disfacimento
interno di una antica nazione, eterogenea e dall’impianto costituzionale
federale e democratico. Che si appresta ad affrontare elezioni potenzialmente
devastanti per il Partito del Congresso che, dai tempi dell’indipendenza, ne ha
costituito l’ossatura politica. Sotto la pressione dirompente di quegli impulsi
autonomistici che, in un mondo globalizzato, vanno diffondendosi ovunque a
macchia d’olio. Con la riemersione anche in India di antichi miti identitari:
con lo sguardo rivolto al passato, nella presunzione che possa servire ad
illuminare il futuro. In una regione che, con il ritiro dell’Occidente
dall’Afghanistan, rischia di sprofondare in una generalizzata multiforme
conflittualità.
L’India ha da sempre beneficiato di privilegi particolari, dovuti alla sua stessa posizione geo-strategica. L’America ha sempre puntato su Delhi come perno della stabilizzazione sub-regionale. In deroga al Trattato di Non-proliferazione, le è stata riconosciuta la legittimità del possesso dell’arma nucleare, in funzione di contenimento di un Pakistan parimenti armato. Da canto suo, l’Europa individuano inoltre in quel subcontinente un imponente partner commerciale. La Russia e la Cina ne vedono l’antagonista da rispettare, almeno formalmente. Tutto ciò non la esime (dovrebbe invece esortarla) a svolgere un ruolo attivo, propositivo, trainante nella ricomposizione dei rapporti internazionali. Coerentemente con la sua aspirazione ad un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
Indicative delle sottostanti sensibilità interne sono state di recente, da un lato la polemica con gli Stati Uniti sul comportamento di un loro funzionario diplomatico a New York e dall’altro quella, a scoppio ritardato, che ha condotto all’invio al macero del libro di una studiosa americana che analizza in modo non sempre lusinghiero la consistenza dell’identità indiana. Ulteriori dimostrazioni di una fragilità interna che mina la credibilità internazionale di un gigante che si scopre dai piedi d’argilla. Una constatazione poco confortante per tutti; non soltanto per i nostri marò.
(Fonte)
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