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Roma Abbiamo sempre pensato che se da 25 mesi gli indiani detengono illegalmente i Marò attirandosi addosso (ma solo adesso, purtroppo…) critiche e censure di mezzo mondo senza essere però in grado di formalizzare alcuna imputazione nei loro confronti e quindi senza poterli sottoporre a giudizio come pretendono e vorrebbero fare, un motivo preciso ci doveva essere. Anche per l’ovvietà che suggerisce il guardare la situazione dal loro punto di vista: vi pare che se avessero la possibilità di accusare e processare i Marò con prove schiaccianti e riscontri inopinabili non li avrebbero già trascinati in tribunale e condannati? I nostri sospetti puntavano all’impossibilità per gli indiani di imbastire una requisitoria basata su dati di fatto oggettivi ed elementi probatori inoppugnabili, cioè che inquirenti e magistrati fossero vittime della suggestione del vorrei – processarli e condannarli – ma non posso. Ora quei sospetti sono diventati una certezza alla luce degli ultimi sviluppi del caso.
Proviamo a metterci nei loro panni. Qualcuno, il ministro della difesa Antony, per aiutare l’amico Oomen Chandy a mantenere la carica di governatore del Kerala dall’assalto portato dall’estrema sinistra a causa della defezione di un deputato e della conseguente perdita della maggioranza nel locale Parlamento, suggerisce al Chandy di essere più realista del re e di cavalcare demagogicamente la strumentalizzazione politica del caso Marò appena scoppiato. A questo nefando complotto viene associata la locale polizia con lusinghe e promesse in caso di rielezione di Chandy, alla quale viene affidato il delicato compito di trovare il modo di “incastrare” i Marò, gli unici disponibili ad essere eletti a capri espiatori per l’uccisione dei due pescatori. Così, si manipolano e si costruiscono prove, altre a favore della posizione di Latorre e Girone vengono occultate, si depista, si costruisce un teorema accusatorio la cui solidità è quella di un castello di carte da gioco su un tavolo all’aperto esposto al soffio del vento pomeridiano mandato dal mare. Si arriva al punto che bisogna mantenere le loro infondate accuse avendo superato il punto di non ritorno della vergogna. S’è creato un caso che ha finito col coinvolgere tutti: il governo, la polizia, la Capitaneria di Porto, i periti necroscopici del Kerala prima, il governo centrale dell’India, la Corte Suprema di New Delhi, gli investigatori dell’antiterrorismo, il tribunale di New Delhi e tre ministeri, quelli degli Interni, della Giustizia e degli Esteri. Più il cerchio si allargava e più difficile era per quelli che il caso avevano viscidamente montato ammettere che si trattava di una boutade e chiedere scusa ammettendo di essersi sbagliati.
Certo avrebbero potuti mandarli sotto processo, ma cosa sarebbe accaduto? Vediamo un po’. Il comandante del peschereccio delle due vittime aveva dichiarato ai microfoni di numerosi corrispondenti e del canale TV locale Venad News e di fronte ad una folla di curiosi, appena approdato nel porticciolo di Neendakara alle ore 23.30 locali di quel fatidico 15 febbraio 2012 di “essere stati aggrediti da una grossa nave, di cui al buio non aveva scorto il nome, dalla quale gli avevano sparato addosso” causando la morte di due pescatori. Dopo tre giorni, la polizia del Kerala riesce finalmente a convince il comandante Freddy Bosco a fornire una nuova versione dei fatti, pena la mancata opportunità di farsi risarcire i danni qualora non si fossero trovati i responsabili. Ed allora Bosco i responsabili li fa subito trovare e, ritrattato quello che aveva affermato a caldo di fronte ad una platea di testimoni, forniva questa nuova versione dei fatti: “Saranno state le 16.30 del pomeriggio, io dormivo sul pavimento in cabina di pilotaggio accanto al timoniere, gli altri erano sottocoperta. Ho inteso una sparatoria della durata di circa un minuto e mezzo, ho inteso il tonfo del timoniere Valentine Jalastine, 45 anni, caduto in terra colpito a morte alla testa. Poi dopo, mi sono accorto che nella toilette giaceva esanime un altro nostro marinaio, Ajish Pinky, 25 anni, colpito da un solo colpo al cuore”. Una versione che, come abbiamo più volte dimostrato, non sta in piedi, che abbiamo smontato punto per punto, oltretutto definitivamente smentita dalle perizie fatte sulle foto del peschereccio appena dopo l’incidente dall’esperto di chiara fama internazionale Luigi Di Stefano, il perito balistico che ha fatto luce sulla tragedia di Ustica sostenendo la tesi di un missile sfuggito al controllo nel corso di una battaglia aerea, tesi accolta dal Tribunale, dalla Corte d’Appello e da quella di Cassazione.
A smentire Bosco e gli inquirenti indiani prima eravamo solo noi di Qelsi, oltre ovviamente ai Marò ed al loro collegio di difesa. Ora a distruggere il castello di calunnie costruito per incastrare i Marò, pensate un po’, sono nientemeno che altri indiani, cioè quelli della locale Guardia Costiera che registrano un’altra dinamica dei fatti, con orari e cronologia diversa da quella esibita dalla polizia del Kerala e ripresa nella pseudo-istruttoria tarocca sulla base della quale la NIA vorrebbe istruire un processo che se fosse fatto rischia di trasformarsi in un implacabile j’accuse di risonanza internazionale contro politici, magistrati ed inquirenti indiani. Questa testimonianza costituisce quindi una svolta clamorosa per affondare le tesi accusatorie degli indiani, perchè conferma gli orari accertati con la prima versione dei fatti sempre sostenuta dai Marò e dimostrata dalle comunicazioni intercorse tra la Lexie, l’armatore ed centro SAR per il controllo della navigazione di Mumbai e decreta, per ovvia conseguenza, l’assoluta estraneità dei nostri fucilieri alle vicende che hanno condotto alla morte dei due pescatori. In un eventuale processo questo sarebbe un primo punto a sostegno del proscioglimento dei Marò. Ma questa sarebbe solo una delle enormi incongruenze della storia che la NIA vorrebbe raccontare.
C’è il referto balistico inviato tramite il ministero degli Esteri dell’India in via ufficiale alla Marina Militare italiana che indica come non furono Latorre e Girone a sparare. Ma allora perchè li vogliono processare? Ma non è tutto. Quando il 16 febbraio del 2012 l’anatomopatologo prof. K. Sasikala, docente associato di medicina legale all’Istituto di Medicina legale di Trivandrum, esegue l’autopsia, dai corpi delle vittime estrae due proiettili, uno ciascuno. Già questo, insieme alle foto del St Antony in cui il peschereccio appare quasi intatto, contribuisce a smentire le dichiarazioni di Bosco, perchè se i Marò avessero sparato per un minuto e mezzo avrebbero esploso circa duemila colpi ed i due cadaveri sarebbero stati crivellati di colpi o fatti a pezzi. Ma a parte questo, in modo irrituale nel suo rapporto necroscopico Sasikala non indica il calibro delle ogive, ma la lunghezza e le due circonferenze delle pallottole. I numeri sono: lunghezza 3,1 centimetri, circonferenza sulla punta 2,0 centimetri, circonferenza sopra la base 2,4 centimetri. Le cifre sono compatibili con un calibro 7 e 62 e non con il calibro 5 e 56 dei sei fucili Beretta 70/90 e dei due mitra Fn minimi in dotazione alle truppe Nato, e quindi anche ai Marò. Con tenacia degna di miglior sorte, il 10 aprile 2012 la polizia keralese tenta un’ultima carta disperata per costruire una perizia utilizzabile contro i Marò. Succede quando a quesito il Forensic Sciences Laboratory comunica ai giudici ed alla polizia del Kerala che le armi del delitto potrebbero essere nuovi modelli di fucili Beretta Arx-160 che possono esplodere anche colpi calibro 7 e 62, sostituendo però la canna e alcune altre parti dell’arma. Secca e definitiva la replica della nostra Marina Militare che ha gioco facile nello smentire la tesi indiana. Quel fucile, si ribatte, non è in dotazione ai Nuclei Militari di Protezione delle navi italiane. Punto e basta.
Ma la polizia del Kerala è disperata, non si arrende, non può arrendersi e cerca in qualche modo di correre ai ripari. Manda a Roma alcuni 007 intercettati e riconosciuti dal giornalista del Foglio Daniele Ranieri, che riporta la notizia sul suo quotidiano, il quale li sorprende mentre erano in disperata ricerca, ma senza successo, di fucili Beretta Arx-160, gli unici in grado di sparare anche colpi 7 e 62. Allora non era chiaro quale fosse il motivo che aveva spinto a Roma gli 007 indiani, ora tutto torna ed i nodi arrivano al pettine. Viaggio a vuoto, inutile e sbagliato negli intenti, perchè se anche li avessero trovati in commercio gli Arx-160 nulla avrebbero dimostrato, considerato che la polizia del Kerala ha tenuto sotto sequestro e rivoltato come un calzino la Enrica Lexie per due mesi senza nulla trovare in grado di sparare proiettili di quel calibro. Peraltro, il referto finale delle perizie balistiche sui proiettili appare chiaramente contraffatto. Pezzi di frasi e brani cancellati e poi coperti con altro scritto. Addirittura, nel passaggio dall’originale alla copia contraffatta viene alterato persino il modo di indicare la data della protocollazione: nel primo si indica infatti come “Cr No, Punto, 02/12, mentre nel secondo diventa “Cr. No, Due Punti, 02/12″. Senza dire delle perizie sul peschereccio, non pervenute, perchè mai effettuate secondo standard affidabili e riconosciuti. Risultato : perizie inutilizzabili contro i Marò e pertanto secretate sino all’avvio del processo, non rese disponibili neppure alla difesa. Meglio non lasciare tracce compromettenti in giro.
Anche perchè, guarda tu il caso, il calibro 7 e 62 è esattamente quello dei proiettili sparati dai mitra russi Pk montati sugli sfreccianti Arrow Boats della Guardia Costiera e della Marina Militare dello Sri Lanka, stato contro il quale l’India conduce da anni una guerra latente, che sparano a tutti i pescherecci indiani, e non per avvertimento. Negli ultimi anni sono più di ottanta i pescatori indiani la cui morte è stata attribuita ai cingalesi perchè sorpresi a pescare sconfinando in quelle acque di cui contendono la territorialità all’India, senza che questa possa fornire loro alcuna protezione. Per una volta che si possono accusare due italiani di passaggio, perchè non approfittarne?
Poi in un processo potrebbero venire fuori precedenti a dir poco imbarazzanti per l’India. Chi non ricorda il caso della Savina Kayling, nave gemella della Enrica Lexie, stesso armatore, la Flli D’Amato di Napoli? La Savina fu catturata e sequestrata dai pirati somali e trattenuta in ostaggio per 11 mesi insieme a 22 uomini di equipaggio, 5 italiani e 17 indiani. Si dovette pagare un riscatto (l’Italia), ma prima della liberazione il governo indiano implorò quello italiano di dare precedenza ai prigionieri indiani, altrimenti avrebbero corso il rischio di subire gravi ritorsioni da parte dei somali una volta rimasti nelle loro mani. L’Italia accondiscese alla richiesta e gli indiani furono liberati per primi e con ogni precauzione per tutelarne l’incolumità. E’ per ringraziare i loro liberatori, che poi gli indiani hanno arrestato due Marò italiani che erano in missione antipirateria volta a salvaguardare la sicurezza della navigazione di tutti, anche quella degli indiani.
Oppure il caso dei due pescatori uccisi per errore dai marines Usa che scortavano una nave appoggio di unità della US Navy di fronte alle coste del Dubai, perchè li avevano scambiati per pirati. In quel caso il governo indiano nemmeno si azzardò a protestare e fu subito raggiunto da una nota di protesta del Pentagono consegnata all’ambasciatore indiano a Washington DC nella quale si denunciava la irresponsabilità dell’India che mandava in giro in acque pericolose propri pescherecci fatiscenti, privi di mezzi di comunicazione e senza un’efficiente strumentazione capace di garantire la sicurezza della navigazione propria ed altrui. Oppure i due civili indiani uccisi per errore nel Centro Africa dai parà francesi che avrebbero dovuti tutelarli, perchè scambiati per guerriglieri nonostante fossero trasportati da un camion dell’esercito del Gabon alleato dei francesi. Telefonata di scuse di Hollande a Singh, il primo ministro indiano, ed incidente chiuso, perchè i parà erano coperti da immunità funzionale. La stessa immunità che l’India ha preteso fosse riconosciuta e rispettata per suoi 37 militari che indossavano in Congo la divisa dei peacekeepers, i Caschi Blu, che una corte internazionale ONU, Congo ed India aveva riconosciuto responsabili di centinaia di stupri contro donne e bambine, molte delle quali uccise per divertimento, di traffico di droga, di armi e preziosi, oltrechè degli aiuti destinati alla popolazione civile, tutte attività estranee alla missione per la quale erano stati mandati in Congo. La stessa immunità funzionale che ora l’India rifiuta di riconoscere ai nostri valorosi soldati impegnati a contrastare terrorismo ed atti di pirateria in un mare infestato di pirati.
Ecco, si diceva, mettiamoci nei panni degli indiani. Anche solo per quello che abbiamo riferito, e molto altro ancora s’è detto e si potrebbe tornare a dire, ve la sentireste di condurre un processo che per forza di cose attrae un’attenzione planetaria sulla base degli elementi accusatori così inconsistenti da smentirsi da soli? E’ per questo che dopo 23 mesi stiamo ancora al punto di partenza e nessuno in India si vuole prendere la responsabilità di fare la prima mossa. Ed è per questo che possiamo pensare che lunedì 24 marzo, a conclusione dei festeggiamenti per la primavera che in India sono un sacro rituale, qualcuno proporrà di finirla lì proponendo la liberazione dei Marò, con un dispositivo procedurale che tecnicamente li lascia a piede libero in attesa di un processo che per gli indiani è molto meglio non si svolga mai.
Di Rosengarten
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