domenica 30 marzo 2014

Per i nostri marò arriva (in ritardo) una vittoria di Pirro


La Corte suprema indiana ci dà ragione quando ormai  è inutile: i tempi si allungano e il clima politico peggiora


La Corte suprema indiana sospende il processo ai marò dando ragione all'Italia, ma oramai è tardi. Dopo tre governi romani con linee diverse e contraddittorie il nuovo esecutivo ha deciso di intraprendere la via della «internazionalizzazione» non riconoscendo più la giurisdizione indiana.




Questa linea della fermezza doveva essere adottata fin dall'inizio quando ai marò fu ordinato di consegnassi nelle grinfie della polizia del Kerala scendendo dalla nave italiana Enrica Lexie, che difendevano dai pirati. Sempre meglio che mai farlo adesso, dopo due anni di madornali errori, ma il rischio è che Massimiliano Latorre e Salvatore Girone tornino a casa con i capelli bianchi. Insomma una sentenza che è solo una vittoria di pirro, visto che arriva troppo tardi, dopo che abbiamo già deciso di non riconoscere la giuridizione indiana. Nell'udienza di ieri la Corte suprema di New Delhi ha dato ragione al ricorso della difesa dei marò contro l'utilizzo della Nia, la polizia antiterrorismo, nel delicato caso. Secondo i legali dei fucilieri di Marina la decisione è un punto per l'Italia che «contesta in toto il diritto dell'India a condurre l'inchiesta e a giudicare i marò». In realtà la Corte suprema ha solo stoppato il processo rinviandolo di quattro settimane per permettere al governo indiano e alla stessa Nia di presentare le loro controdeduzioni. Il caso verrà affrontato in maggio, ma a causa delle ferie estive una decisione finale sul ricorso italiano non arriverà prima di luglio o agosto.
Un ulteriore allungamento dei tempi che servirà a spostare il processo oltre le fatidiche elezioni indiane con gli ultranazionalisti mangia-marò dati per favoriti. Il punto a favore dell'Italia ha un significato relativo dopo la decisione del governo Renzi di seguire la via internazionale. I marò non si sono presentati in aula e tantomeno lo faranno in futuro. L'Italia non riconosce più la giurisdizione indiana, che ci ha fregato innumerevoli volte. Il problema è che i marò rimangono incastrati in India fra le mura dell'ambasciata e difficilmente sarà possibile farli rientrare in Italia. Una beffa dopo oltre 25 mesi dalle accuse di aver ucciso due pescatori indiani scambiati per pirati. Il governo Monti ha calato le brache rimandando i marò in India quando avremo dovuti tenerli in Italia per processarli in un nostro tribunale o chiedendo un arbitrato internazionale. In seguito con il governo Letta, l'allora ministro degli Esteri, Emma Bonino, si era tuffata nel processo in India sperando che fosse giusto e celere.


 Altro errore madornale di valutazione che l'inviato speciale del governo italiano Staffan De Mistura ha difeso a spada tratta come tutte le altre decisioni sbagliate e contraddittorie di questi ultimi due anni. Adesso, come se nulla fosse, si fa argine sulla linea del Piave della «internazionalizzazione», in passato respinta con sdegno a più riprese. Chi paga sono i marò e le loro famiglie, ma i politici, dopo la decisione della Corte suprema favorevole all'Italia dichiarano a gran voce «che non basta». Fra gli altri pure Pierferdinando Casini, che di fronte alla vergognosa decisione di Monti di rimandare i marò in India il 22 marzo 2013 non alzò un dito, anzi difese la «nobile» scelta della parola data a Delhi.
Dopo l'appello caduto nel vuoto di Ignazio La Russa di Fratelli d'Italia, per candidare i marò alle europee ci riprova Elio Vito. «Cari Silvio Berlusconi, presidente di Forza Italia e leader dell'opposizione, e Matteo Renzi, segretario del Partito democratico e presidente del Consiglio, - scrive in una lettera aperta in vista del voto per Strasburgo il presidente della Commissione difesa della Camera - con autentico spirito bipartisan i due principali partiti offrano ciascuno una candidatura a Latorre e a Girone, impegnandosi per la loro elezione, senza richiedere alcuna adesione politica». Una mossa che dimostrerebbe simbolicamente come l'interesse e la dignità nazionale valgano di più di qualsiasi divisione.


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