Sulla vicenda dei due marò italiani detenuti in
India pubblichiamo dalla rivista di geopolitica East un commento dell'ex
ambasciatore d’Italia a Nuova Delhi, commissario dell’Istituto italiano
per l’Africa e l’Oriente.
La vicenda dei due marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone è
stata vissuta in Italia come una crisi di prima grandezza nella nostra
politica estera. Nelle cancellerie e nelle opinioni pubbliche di altri
paesi, anche amici e alleati, l’attenzione è stata tutto sommato
distratta. Il governo indiano l’ha considerata come una crisi di
rilevanza secondaria e la stampa del paese l’ha spesso relegata nelle
pagine interne.
Eppure, ci sarebbe stato più di un motivo per occuparsene in maniera
diversa: la crisi dei marò ha messo in luce aspetti che presentano per
l’insieme delle relazioni internazionali implicazioni potenzialmente
rilevanti. Si è parlato molto di pena di morte intorno a questa vicenda,
in Italia: in parte per una preoccupazione reale, e in parte non minore
per una tattica negoziale che si riteneva – erroneamente a mio avviso –
potesse indurre a un atteggiamento più costruttivo le autorità indiane. La prassi giudiziaria
indiana la prevede solo in casi definiti “the rarest of the rare” (nel
più estremo fra i casi estremi) e l’ambiguità della formula è stata
sempre interpretata in maniera restrittiva a Delhi. L’ultima esecuzione
ha riguardato il terrorista pakistano, unico sopravvissuto dei
responsabili della strage di Bombay del 2008. Pensare che un tribunale
indiano potesse condannare a morte degli appartenenti alle forze armate
di un paese amico, per di più membro della NATO, significa non valutare
correttamente i meccanismi decisionali e le logiche di influenza della
politica indiana.
Quello che preme sottolineare qui, tuttavia, non è tanto
il fatto che le possibilità di una sentenza capitale siano
giuridicamente improbabili e politicamente astratte, quanto che il tema
della pena di morte sia entrato in questa vicenda mettendo a nudo
esitazioni e ritardi nella battaglia per la sua messa al bando. L’Italia
è da sempre all’avanguardia nel campo abolizionista.
L’India invece ha dimostrato
una forte ritrosia, votando in genere contro le risoluzioni societarie, in nome
del diritto a una sovranità interna che rifiuta vincoli automatici,
indipendentemente dal fatto che la pena venga applicata o meno. Che tutto ciò non
abbia colpito più di tanto la comunità internazionale costituisce una
manifestazione abbastanza evidente dell’effettivo livello di attenzione su
questo tema. Diverso e non meno grave è stato il divieto imposto al nostro
ambasciatore di lasciare il territorio indiano.
All’ambasciatore italiano in
India e accreditato anche in Nepal gli sarebbe stato di fatto impossibile
esercitare le sue funzioni, con un’evidente lesione degli interessi italiani,
nel caso di una qualche urgenza nei nostri rapporti con quel paese. Che la
sanzione imposta dalle autorità indiane abbia costituito una chiara violazione
delle immunità diplomatiche sancite dalla Convenzione di Vienna, è di tutta
evidenza. Le stesse ragioni addotte per cancellare il provvedimento sono
apparse inaccettabili, nella misura in cui accreditavano ulteriormente
l’ipotesi che si fosse agito in presenza di un fumus di reato. Abbiamo espresso
sollievo quando all’ambasciatore Mancini è stata restituita la libertà di
movimento. Forse avremmo dovuto anche, se non di più, ribadire l’indignazione.
La mossa indiana avrebbe dovuto provocare una protesta ben più forte,
e soprattutto generalizzata: le parole imbarazzate della Ue, la presa
di distanza di fatto delle Nazioni Unite e l’indifferenza di molti paesi
alleati, non sono state tanto o solo un danno per la credibilità
dell’Italia (che pure c’è stato).Hanno lasciato intravedere la
possibilità di una deriva che ci si augura non abbia a verificarsi ma
che, in caso contrario, sarebbe difficile arginare e getterebbe nel caos
la dinamica dei rapporti internazionali. I due marò erano impegnati in
una azione di protezione antipirateria e questo, quali che siano state
le modalità, resta un punto centrale. La Enrica Lexie è stata attirata
in porto dalle autorità indiane con la scusa di collaborare
all’identificazione di presunti pirati appena catturati (stando a quanto
è stato riferito all’epoca e mai smentito). Si è trattato di uno
stratagemma illegittimo che ha fatto perno sulla buonafede italiana in
quello che si riteneva un impegno comune a entrambi. Il danno fatto
all’Italia avrebbe giustificato una ben più decisa reazione, ma
soprattutto si è creato un vulnus all’impegno della comunità
internazionale di stroncare sotto l’egida dell’Onu il flagello della
pirateria. Quale altra nave risponderà mai a richieste di cooperazione
del genere in futuro?
Il rischio è quello che una campagna voluta dalle Nazioni Unite, la
cui efficacia si basa sull’adozione di norme uguali per tutti, finisca
per naufragare nella confusione, o al massimo di divenire preda della
logica del più forte come unico parametro di comportamenti e reazioni.
La pirateria è un problema serio; i nostri marò potrebbero anche avere
commesso degli errori (personalmente ne dubito), ma azioni come quella
indiana possono avere un effetto dirompente sull’intero sistema di
prevenzione.
C’è chi ha visto nell’azione del governo indiano la riprova della rivendicazione, da parte dei “giganti emergenti”, del diritto di riscrivere le regole di comportamento sin qui vigenti, a seguito del rovesciamento delle linee d’influenza tradizionali del rapporto Nord-Sud, in un mondo globalizzato e sempre meno unipolare. È la lettura di quanti hanno ritenuto inevitabile per l’Italia prendere una posizione sostanzialmente rinunciataria davanti a pretese sicuramente infondate. Nulla di più potenzialmente pericoloso: resta da dimostrare se l’atteggiamento indiano sia stato figlio di una mentalità da Superpotenza saldamente introiettata, o se non si sia trattato di una nuova manifestazione di insicurezze antiche, quelle di un paese che vorrebbe convincersi di essere grande, ma non vi riesce del tutto, e reagisce rompendo il paniere delle regole che per altri versi vorrebbe poter determinare. L’India è un paese emergente, ma non ancora emerso del tutto.
Quale che sia la lettura giusta, resta il fatto che il mutamento
degli equilibri globali richiederà una assunzione di responsabilità
tanto da parte dei “nuovi grandi” come delle potenze tradizionali, più o
meno declinanti, per fissare i paletti di un nuovo recinto condiviso.
È possibile, e forse anche probabile, che Latorre e Girone vengano condannati dal tribunale indiano che li dovrà giudicare. Non importa a che tipo di pena: resterebbe il fatto che due membri delle forze armate italiane, in servizio di Stato nell’interesse di una campagna voluta dalle Nazioni Unite, avrebbero subito una condanna penale e che questa condanna l’Italia avrebbe di fatto accettata. C’è davvero da riflettere su cosa ciò significherebbe in termini di capacità del nostro paese di avere una proiezione internazionale all’altezza non so se delle sue ambizioni, ma di certo del suo ruolo e delle sue responsabilità.
Articolo di Antonio Armellini apparso sul numero di luglio/agosto 2013 di East – Rivista di Geopolitica
(Fonte)
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